Evan Desmond Yee. Il ritorno del caleidoscopio

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Collettively è una piattaforma che ospita proposte innovative sotto vari profili, sul loro portale sottolineano che sono soprattutto un collettivo che ha l’obiettivo di ispirare il cambiamento.

“Attraverso il lavoro insieme scopriamo, vogliamo condividere e scalare le idee interessanti per un futuro che vogliamo vivere e vogliamo sostenere le idee che stanno facendo la nostra vita migliore oggi e il mondo migliore domani. Cerchiamo e sosteniamo persone che stanno facendo cose nuove che possono aiutare la società e l’ambiente a prosperare. Vogliamo aiutare queste storie e le loro idee a prendere piede.”

Una delle proposte che mi ha colpito di più ha natura artistica ed è il resoconto di “Start Up“ una mostra delle realizzazioni di Evan Desmond Yee, artista multimediale di 24 anni, presso la Galleria 151 a Chelsea e adesso a Fueled, Soho sempre a NYC.

Visitando la mostra, si prova un’esperienza simile a quella di una visita a un negozio Apple, ma c’è una differenza sostanziale perché il shop display al posto dei prodotti della famosa azienda californiana propone oggetti trasfigurati e quindi creazioni artistiche.

Alcune tra le creazioni, forse le più interessanti sono: #NoFilter, un paio di occhiali in metallo in stile Ray Ban, Pendant Kaleidogram, un tubo caleidoscopio associabile alla fotocamera del telefono, e iFlip, un iPhone trasformato in una antica clessidra piena di sabbia.

Una domanda nasce spontanea e viene in buona parte confermata dalle risposte di Evan Desmond Yee all’intervista che è possibile leggere nella pagina dedicata alla mostra: come si combina la tecnologia con la nostra vita e che effetti ha oltre a facilitare i contatti e le relazioni e a consentire la fruizione immediata di contenuti visivi?

La risposta di Evan non è disruptive ma deconstructive nel senso che usa uno sfondo bianco per mettere in risalto le sfumature e dentro la venatura del colore trova passaggi inattesi attraverso i quali si accede alla memoria del nostro passato, un po’ come un raggio di luce che nasconde la sua essenza prismatica sprigionando poi la forza dei colori.

Per tale ragione l’azione deconstuctive di Evan Desmond Yee è quasi rivoluzionaria, afferra per la gola la cosiddetta arte del presente e l’ossessiva rappresentazione del prodotto commerciale riscoprendo il vero senso dell’arte, i suoi elementi basici, la materialità dei frammenti colorati che in un gioco di specchi, grazie al vetro del caleidoscopio, creano meravigliose figure e infinite combinazioni.

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Come sulle spiagge ove, dopo le mareggiate invernali, é possibile raccogliere vetri di vari colori levigati dalle onde o sassi strani e legni che paiono figure di animali, sono anche questi frammenti del mondo che aspettano solo qualcuno che dia loro un significato, uno dei tanti che possono avere.

Evan vuole mettere in evidenza i modi in cui la tecnologia sta cambiando la condizione umana e non è un caso che la mostra sia dedicata alle opere di due autori che hanno provato a riflettere in anticipo su questi aspetti: Aldous Huxley, ne Il nuovo mondo, e Kurt Vonnegut, in Piano Meccanico.  In ambedue le opere si preannuncia l’avvento di una società completamente meccanizzata e automatizzata, nella quale viene eliminata la classe media. Nel romanzo di Vonnegut, in particolare, l’imperante meccanizzazione crea conflitti tra la classe benestante degli ingegneri, che gestiscono lo sviluppo della società, e la classe povera, il cui contributo lavorativo è totalmente sostituito dalle macchine.

“Stiamo andando da qualche parte con la tecnologia o in realtà stiamo creando un culto della distrazione?” si chiede Evan illustrando la mostra e noi non possiamo fare a meno di pensare che la provocazione insita nelle sue proposte artistiche indichi precisamente quale possa essere il vero percorso.

Una distrazione generale in cui la finzione ha il sopravvento sulla realtà e l’irrealtà sulla natura, il non luogo sul luogo, l’astrazione sociale sulla comunità, amnesia e distrazione che in qualche modo debbono essere interrotte.

La parola caleidoscopio viene dal greco καλειδοσκοπεω e significa vedere bello, una bellezza costruita dal movimento della materia che, esaltata dal gioco di specchi, diventa spettacolo.

L’arte ha sempre inseguito principalmente due fattori: la bellezza e il piacere, possano venire da un’immagine, da un suono o da un profumo, questi due fattori sono intrinsecamente associati all’esperienza di vita dell’uomo e alla fruizione artistica.

Trasformare uno smart phone in uno strumento che produce bellezza è un gesto che fa ben sperare, l’altro sarebbe di gettarlo nella spazzatura e poi ritrovarlo, dopo qualche tempo, mutato in clessidra.

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Al and Al. I sogni delle macchine

 

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Al Holmes e Al Taylor noti al pubblico anche come al and al sono artisti visivi e registi inglesi conosciuti per i loro film di carattere spiccatamente surrealista nei quali riescono a coniugare live action e realtà virtuale e a creare sensazioni oniriche.

Non è facile trovare in giro foto e immagini della coppia, nonostante ormai abbiano raggiunto un certo successo, nemmeno sul web e le loro storie hanno elementi di originalità. Al Holmes, ad esempio, ha trascorso la sua prima giovinezza con un nonno inventore alla costante ricerca di una macchina che potesse generare il moto perpetuo. La strana coincidenza è che il nonno di Al Holmes aveva anche progettato una macchina per fare torte per il nonno di Al Taylor, un premiato pasticciere.

I percorsi formativi dei due artisti, inizialmente, sono molto diversi: Al Taylor studia fotografia e inizia a lavorare nel settore della moda con fotografi come Steven Klein e David Sims, poi, lascia la moda e studia sceneggiatura. Al Holmes, invece, intanto studia teologia e mistica, nel Seminario di Londra e vuole farsi prete. Altre singolari coincidenze, condividono gli stessi tre nomi: Alan James Edwards, come i loro padri, che scompaiono lo stesso giorno.

La produzione artistica di al and al inizia nel 2001 dopo la laurea al Central Saint Martin. Sino ad oggi hanno prodotto un buon numero di filmati che hanno ottenuto premi in molti paesi del mondo e sono stati proiettati durante festival, performances artistiche e alla televisione.

I titoli dei film che hanno avuto maggiore successo sono Anaglyph Avatar (l’anaglifo è una immagine stroboscopica in tre dimensioni), Icarus at the edge of the time, tratto da un romanzo dello scienziato americano Brian Green, Superstitious Robots, una trilogia di short film per la televisione, e The Creator.

Il denominatore comune della loro produzione è una riflessione sulla dimensione macchinica della nostra società e del futuro prossimo. Forse una risposta alla domanda su quello che potrebbe succedere in un mondo abitato solo da macchine pensanti.

Chi tra noi usa il trasporto pubblico, bus e metropolitane, sa che ormai le persone, in questi contesti, parlano molto poco tra loro, in buona parte, verrebbe da dire tutti, se non per una questione di età, costantemente occupati a consultare smartphone e tablet, perennemente connessi con qualcos’altro.

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Recentemente riflettevamo sulla dinamica hegeliana, in sé e per sé, un percorso dialettico che può muovere, o non muovere, l’individuo anche verso una scelta personale di coinvolgimento e partecipazione.

Perché ciò sia possibile bisogna fare i conti con l’entità che è stata definita altro da sé. L’altro da sé è la dimensione della relazione, verrebbe da dire la dimensione della comunicazione e della condivisione. Un effetto relazionale positivo porta l’individuo a condividere un’idea o un progetto e a decidere di farne parte, un effetto negativo no.

Un tempo i rapporti sociali generavano attrazioni/distinzioni emotive verso un’idea, l’immaginazione e la fantasia prodotte dall’esperienza e dalla conoscenza davano un deciso contributo.

Oggi l’altro da sé è in un insieme di relazioni supportate dalla tecnologia. Abbiamo l’impressione che la tecnologia allarghi il campo, amplifichi le relazioni, invece le informazioni e le connessioni vengono selezionate, talvolta inconsciamente proprio da noi stessi, e il campo si riduce a un universo individuale.

Il risultato è che siamo sempre più soli, con i nostri problemi, le nostre discrasie, e abbiamo molta paura di condividere i sogni.

Le macchine intelligenti di al and al invece sono macchine e quindi intrinsecamente pure, nel senso che possono ridurre drasticamente le inefficienze, cioè quella porzione della psiche che normalmente lavora contro e poi hanno acquisito da noi anche la capacità di sognare.

Forse il nostro compito sulla terra si è esaurito, dovevamo creare le macchine intelligenti e sognanti e l’abbiamo fatto con successo. Quando scompariremo, le macchine saranno saldamente al loro posto e finalmente potranno connettersi con la natura, dialogare con gli animali sopravvissuti, con le piante e con tutti gli organismi viventi, rassicurandoli, amandoli e dando loro un futuro.

Grazie alle macchine allora la terra tornerà ad essere il paradiso che era.

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Piero Manzoni. La base del mondo

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Il sette febbraio del 1963 un anonimo trafiletto del quotidiano milanese “Corriere dell’informazione” riporta una breve notizia: “Un giovane pittore, Piero Manzoni, di trent’anni, è morto per paralisi cardiaca nel suo studio al pianterreno di via Fiori Chiari 16. Il giovane pittore è stato colto da malore, mentre era solo. Ha tentato forse di chiamare aiuto, ma non è riuscito a farsi sentire. Dopo sei ore è stato trovato morto dalla madre e dalla fidanzata che, dopo avergli telefonato, spaventate dal lungo silenzio, sono accorse (…)”.

Si conclude così prematuramente l’esperienza umana e artistica di uno di più originali protagonisti dell’avanguardia italiana del dopoguerra: Piero Manzoni. Proviamo con l’aiuto di Flaminio Gualdoni e del suo bel libro “Piero Manzoni. Vita d’artista” per i tipi di Johan & Levi editore a ripercorrerne gli elementi più rilevanti.

La storia comincia a Milano negli anni cinquanta e nella Milano di quegli anni sono soprattutto i bar i luoghi di elezione degli artisti, posti che sostituiscono le gallerie trovando  un punto di equilibrio tra le dinamiche di relazione e la voglia di esposizione.

E’ al bar Jamaica che Manzoni comincia a diffondere i contenuti della sua arte militante, e sono ammessi anche tafferugli di sapore post futurista.

“Pierino Manzoni ci ha telefonato, voleva illustrarci meglio i contenuti della pittura organica. I pittori nucleari si dividono in nucleari fisici e nucleari psicoanalitici, io sono uno psicoanalitico” scrive Adele Cambria sul Giorno riportando fedelmente le parole di Piero.

Come sempre al centro dell’interesse dell’arte vi sono l’attenzione per la natura e la ricerca dell’autentico contrapposte dagli artisti, in modalità spesso violenta e provocatoria, alle più variegate manifestazioni dell’inautentico, cioè a quanto di costruito e strumentale è insito e rinvenibile nella società pre consumistica di quegli anni. Quindi la ricerca del naturale è ancora forte o meglio la volontà di far emergere l’originale, liberi da concrezioni spaziali e spirituali. E’ in questo contesto che troviamo rivoluzionata anche la funzione di quadro, perché del quadro viene rivista la concezione e messa in discussione una presunta precedente identità.

“La stessa concezione consueta del quadro va abbandonata; lo spazio superficie interessa il processo autoanalitico in quanto spazio di libertà. (…) Il quadro è il nostro spazio di libertà in cui reinventiamo continuamente la pittura nella continua ricerca delle nostre immagini prime.”

Manzoni è comunque attento alle trappole nascoste dentro la ricerca del nuovo per il nuovo, diffida della ripetizione stereotipata connaturata all’arte del presente che si può facilmente confondere e sovrapporre con il mercantilismo consumistico.

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“Già l’impressionismo liberò la pittura dai soggetti convenzionali, Cubismo e Futurismo a loro volta tolsero l’imperativo della imitazione oggettiva e venne poi l’astrazione per dissipare ogni residua ombra di una illusoria necessità di rappresentazione.”

Forse l’ultimo passaggio di liberazione è la distruzione dello stile, quello che Adorno definì, nei Minima Moralia, l’equivalente estetico del dominio.

Ma è nel 1959, con il lancio della rivista d’avanguardia Azimut, che Manzoni mette davvero in discussione i principi dell’arte del suo tempo proponendo la Linea lunga 33,63 metri, una fascia di stoffa contenuta in un cilindro metallico, e poi successivamente i Corpi d’aria, elementi artistici  che attengono al campo della libera dimensione.

“Basti pensare che una delle linee esposte è semplicemente chiamata infinita: ciò nonostante anche questa non si differenzia dalle altre e vive di uno slancio irresistibile che trasporta.”

Le linee e i corpi sono testimoni del pensiero dell’opera, l’unico oggetto immateriale che l’autore propone e il fruitore può eventualmente comprare. Un’opera potenziale che trova piena realizzazione solo nel rapporto fantastico tra il progetto artistico e l’aspettativa fiduciosa dell’utente. Tale dinamica rende esplicita “l’adesione dell’acquirente all’identità, all’esistenza, al pensiero dell’autore”. Quindi non si può più dire che si è comprato un Manzoni, bensì Manzoni stesso, in carne e ossa.

In questo contesto ricco di idee e di relazioni con molti gruppi artistici mi piace sottolineare la collaborazione di Piero Manzoni con il Gruppo N di Alberto Biasi e Manfredo Massironi, artisti padovani certo non convenzionali e anche politicamente innovativi.

E’ comunque automatico abbinare all’idea Manzoniana di riscoperta del valore artistico il disvalore della deiezione rappresentato dalla sua Merda d’artista, anche se nella produzione artistica di Manzoni la scatoletta rimane un episodio.

Più rilevante è senz’altro il parallelepipedo in ferro di ottantadue centimetri per un metro sul quale appare la scritta “Socle du monde”, base del mondo.

“Nell’esperienza fisica la scritta si legge capovolta, perché in quella mentale è la base a sorreggere la sfera terrestre e non viceversa. (…) Un omaggio dichiarato a Galileo, che ha insegnato all’uomo a vedere in modo nuovo.”

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Piero Gaffuri. Blog Notes, guida ibrida al passato presente

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Adesso è in libreria e disponibile anche sui principali portali on line, si intitola Blog Notes, guida ibrida al passato presente, e raccoglie i migliori post pubblicati negli ultimi due anni sulle pagine virtuali di questo blog, il blog Themadjack, non tutti ovviamente e tanto meno quelli che verranno.

Perché Blog Notes è un’istantanea di un processo in divenire con un obiettivo principale: mettere in risalto persone, autori che hanno cercato di innovare il loro mondo e fissare, attraverso un disegno collettivo, gli elementi più rilevanti dei percorsi creativi.

Semplicemente una raccolta di riflessioni e pensieri dedicati al recente passato e alla contemporaneità con un filo conduttore: la rete, Internet e, quindi, con al centro le grandi potenzialità della comunicazione elettronica.

Internet è un universo che inaugura una nuova dimensione spazio temporale, infatti in rete non vi sono limiti di tempo e spazio, di conseguenza anche la scrittura e le immagini trovano accoglienza in un innovativo spazio letterario multimediale ove si modificano le tradizionali forme di espressione, le condizioni di fruizione e si affermano nuove modalità di partecipazione del pubblico.

Storie di rilevanza creativa nei campi delle arti: colori, musica, poesia, racconto, immagini, categorie che includono le esperienze di alcuni grandi protagonisti della cultura attuale e del Novecento capaci di leggere in anticipo i caratteri del futuro proponendo, nel contempo, un’offerta creativa lungimirante e attuale.

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La necessità di usare la rete come strumento di comunicazione per diffondere e condividere percorsi di produzione culturale di qualità, ma anche per garantire la trasmissione della memoria, è la nota di fondo di un lavoro che nasce dalla rete traendo spunto dal blog Themadjack, come cucitura originale di post che, nel libro, divengono prima paragrafi e poi capitoli.

La sequenza dei contenuti, nei capitoli del libro, è coerente alla classifica di apprezzamento dei lettori della rete nelle statistiche delle pagine viste e degli utenti di Themadjack, quindi Blog Notes è un libro costruito anche dai lettori, una specie di collage nel quale la disposizione delle tessere non è per nulla casuale ma ha avuto origine da un movimento collettivo.

Un aspetto centrale nella diffusione di Internet è certamente dato dalle possibilità di partecipazione, in molti casi forme di iterazione creativa e modalità di connessione intellettuale che possono spingere più rapidamente le persone a esplorare il nuovo e l’adiacente possibile.

Mescolando gli elementi della contemporaneità con le esperienze del passato, è forse possibile contribuire, grazie anche ai loro riflessi, allo sviluppo di un modo nuovo di intendere e sentire.

Un racconto vivente della nostra epoca che contiene anche un messaggio di speranza: nonostante le difficoltà e le ansie è sempre bene assecondare il desiderio, puntando, come dimostra la raccolta di storie esemplari, costantemente alla ricerca di esperienze innovative.

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Graham Sutherland. Parafrasi della natura

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Il temine parafrasi (latino paraphrasis, dal greco παράφρασις, riformulazione) su Wikipedia viene associato all’atto di traduzione di un testo scritto nella propria lingua ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico).

Emerge il carattere umile dell’intervento di parafrasi, perché esso è motivato soprattutto dalla necessità di affiancare, ad esempio, “a un testo di partenza giudicato difficile una versione in prosa corrente che ne appiani le difficoltà lessicali, semantiche e contenutistiche”, rendendo quindi più facile e comprensibile un contenuto complesso.

Abbiamo già dedicato spazio all‘artista inglese Graham Sutherland, ma la raccolta di scritti contenuti nel libro “Parafrasi della natura” consente di apprezzare meglio la sua pittura e, aggiungo, anche la pittura in generale.

Le descrizioni della baia di St. Bride, della pianura e delle punte che l’anticipano e la  contengono, le escrescenze rocciose e le terrazze di Capo St. David, i paesi di case e fattorie bianco, rosa pastello, grigio azzurro e, poi, la zona a sud di questa parte del Galles, sono riflessi dell’entusiasmo e delle emozioni del pittore.

Questa è la regione dove Sutherland, a suo dire, ha imparato a dipingere. Un dipingere che non è il frutto di un’estrazione diretta dalla natura, perché non vi sono “soggetti pronti”, immediatamente trasferibili sulla tela, piuttosto materiali da archiviare nella mente, contenuti intellettuali ed emozionali da sedimentare e stagionare.

“Dapprima provai a dipingere direttamente sul posto, ma ben presto vi rinunciai. Presi allora l’abitudine di fare lunghe passeggiate immergendomi nella natura.”

Il processo creativo di Sutherland inizia con una passeggiata nella natura raccogliendo immagini, colori, forme, contrasti, dispersioni, “delle mille cose che vedo una sola giustapposizione di forme viene colta dai miei occhi come significativa”. Questo lampo, un’intuizione, porta alla parafrasi della natura, e non si manifestano conflitti tra immaginazione e realtà, solo l’umile volontà di tradurre in modo semplice l’essenza delle emozioni e  delle immagini.

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“Lo stadio preliminare, il contatto diretto, conduce poi a un processo diverso, controllato e ordinato dalla mente. La difficoltà sta nel conservare le emozioni del primo incontro, nel comprendere che la freschezza dell’istinto è vitale, nel saper distinguere quando una cosa, vista in un momento, potrebbe diventare, attraverso un lavoro di riflessione e approfondimento emozionale – studiando e ristudiando – un’opera d’arte.”

La pittura in questo caso è una traduzione del sedimento, ammettendo che una traduzione immediata, istantanea, sul posto possa, concedendo troppo alla necessità e alla superficie, portare l’autore a una scelta affrettata destinata, inevitabilmente, a una perdita di valore.

“Quando torna nel suo studio, il pittore ricorda: i suoi incontri sono ridefiniti, parafrasati e mutuati in qualcosa di nuovo e differente rispetto all’originale, e tuttavia identico”.

In realtà, in questo procedimento di assimilazione e proposizione artistica, si avverte un grande rispetto per la natura. La natura è, di per sé, un oggetto complicato, biologicamente complesso, e la sua lettura non può limitarsi alla pura esteriorità, alla descrizione, ma deve sprofondare nella ricerca dei fattori che determinano i processi di identità, le analogie, le corrispondenze e i contrasti.

Interessante a questo riguardo il racconto di Sutherland sulla genesi di una crocifissione commissionatagli dal vicario di St. Matthew, nel Northampton.

“In autunno cominciai a pensare alla forma da dare a quest’opera; nella primavera seguente avevo ancora in mente il soggetto, ma senza aver fatto alcuno schizzo. Mi recai in campagna: per la prima volta cominciai a notare i cespugli spinosi e la struttura della punte che laceravano l’aria.”

Le punte che lacerano l’aria sono dapprima un’immagine registrata nella mente, poi lentamente entrano a far parte di un percorso emotivo che cerca di afferrare il senso di un potenziale equilibrio tra tragedia e salvezza, mestizia e felicità. Anche il contrasto, scansione,  tra l’azzurro e il nero diventa un elemento emotivo della crocifissione.

“Le spine sono nate dall’idea di una crudeltà potenziale, anzi, per me esse erano la crudeltà. Ho quindi cercato di rendere l’idea di una duplice torsione – se così si può chiamare – situando le spine in una cornice confortevole: cieli azzurri, erba verde, croci avvolte dal tepore.”

L’annullamento dell’imperfezione nell’azzurro del cielo richiama l’orrore della conformazione obbligatoria, in realtà è solo una parte del processo di trasformazione visiva di emozioni e contenuti, costantemente alla ricerca di un elemento essenziale che risponda alla ricorrente domanda sul significato recondito della rappresentazione.

Forse, un elemento è la meraviglia, l’emozione che prende, immobilizza e porta l’artista a esprimere e condividere.

“Quando dico di sentirmi immobilizzato, mi riferisco al concetto espresso dal Petrarca: Chiusa fiamma è più ardente; e se pur cresce, in alcun modo più non può celarsi.”

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Jean Baudrillard. The vanishing point

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Poco prima di lasciarci, nel 2007, Jean Baudrillard ha pubblicato un breve saggio dal titolo “Perché non è già tutto scomparso?

E’ l’uomo che è scomparso dal mondo, l’uomo in quanto soggetto e senza estinguersi come capita talvolta alle specie animali ma letteralmente sparendo dalla realtà.

La scomparsa comincia a determinarsi in epoca moderna proprio quando l’uomo affronta il problema del mondo e inizia a mettervi mano cambiandolo, in pratica quando si accorge del reale analizzandolo e trasformandolo attraverso le scienze.

“Quindi si può dire che, paradossalmente, il mondo reale inizia a scomparire nello stesso momento in cui inizia esistere.”

L’uomo ormai conosce il mondo, le scoperte geografiche si sono concluse, nessun punto della terra appartiene più all’ignoto, e mentre l’uomo si accinge ad analizzare il mondo conosciuto, fatto proprio, inizia a dissolverlo.

Sono la rappresentazione, l’imitazione, la concettualizzazione della realtà i fattori che precipitano la realtà stessa nell’irrealtà, perché in questa nuova dimensione il mondo ha cominciato a esistere in una prospettiva diversa, umano-centrica, è il concetto di realtà umanizzata ad avere la meglio ( o la peggio) sulla realtà naturale preesistente.

“Il momento in cui una cosa viene nominata, in cui la rappresentazione e il concetto se ne impossessano, è il momento in cui essa inizia a perdere la sua energia – col rischio di divenire una verità o di imporsi come ideologia.”

E’ il caso, tanto per fare un esempio, della teoria della lotta di classe di Marx che ha cominciato a esistere dal momento in cui Marx l’ha nominata anche se essa è esistita da molto prima che il filosofo tedesco la citasse. Dopo è lentamente scemata sino a scomparire del tutto.

Questo significa che la realtà si dissolve nel concetto, tanto più oggi ove anche i concetti e le idee vengono consumati alla velocità di un hot dog.

L’elemento portante di questo movimento è, a parere di Baudrillard, la tecnologia perché essa non ha limiti né mentali e né materiali, è oggettività allo stato puro e in quanto tale destinata a riassumere in sé tutte le capacità soggettive in una piena operatività e, a breve, a non avere più bisogno dell’uomo.

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Se l’uomo non può superare il limite estremo delle sue possibilità la tecnologia invece può farlo riuscendo infine a rendere ininfluente la presenza stessa dell’uomo. La tecnologia è il frutto di un eccesso di realizzazione e il mondo che ne è venuto è diventato un altro mondo.

Un mondo “in cui le cose per esistere non hanno più bisogno del loro contrario, in cui la luce non ha più bisogno dell’ombra, in cui il femminile non ha più bisogno del maschile (o il contrario?), in cui il Bene non ha più bisogno del Male – in cui il mondo non ha più bisogno di noi.”

Forse “the vanishing point” (E. Canetti), il punto estremo della scomparsa del genere umano, il luogo oltre il quale è impossibile distinguere il vero dal falso è già stato raggiunto e superato.

E se ciò fosse voluto?

Se tutto questo invece fosse una forma estrema di arte giocata sul desiderio di scomparire e quindi di poter vedere come è il mondo in nostra assenza?

Desiderare di uscire dalla gabbia della rappresentazione digitale del reale e scoprire come invece appaia il mondo nella sua pura presenza: un mondo così come è, semplice, senza artifici.

“Vi sono in ciò, le premesse di un’arte della sparizione, di un’altra strategia. Dissoluzione dei valori, della realtà, delle ideologie, dei fini ultimi.”

Un’arte che ha poco in comune con l’arte tradizionale e assomiglia piuttosto a un’arte “marziale”, una disciplina ispirata al combattimento che allude a principi fisici, filosofici e culturali. Una posizione innovativa e contrastante del soggetto.

Un modo di annullarsi e sparire senza sparire del tutto, con rispetto e discrezione, lasciando comunque lievi tracce sul terreno e in aria.

“Il problema – scrive Baudrillard – è cosa resta quando tutto è scomparso.”

Ricorda poi che anche il gatto di Alice nel paese delle meraviglie ha una particolare capacità nel lasciare tracce e come il suo sorriso rimanga stampato in aria per qualche istante dopo che è scomparso.

“E il sorriso di un gatto è già terrificante, ma il sorriso senza il gatto lo è ancora di più….”

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Steven Johnson. Il quarto quadrante

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Il libro di Steven Johnson “Dove nascono le grandi idee, storia naturale dell’innovazione” è una miniera di suggestioni. Nell’ultimo capitolo, intitolato il Quarto quadrante, l’autore affronta il tema delle modalità e dei luoghi più propizi a favorire lo sviluppo delle idee innovative.

Lo fa mettendo in relazione e evidenziando le connessioni tra dimensioni che apparentemente hanno poco in comune, come ad esempio natura e mercato.

Viene in mente Adam Smith e la sua teoria della mano invisibile del mercato che per certi versi richiama quanto di invisibile e immanente c’è anche nei processi naturali.

Steven Johnson ricorda che subito dopo la pubblicazione della “Origine delle Specie” di Darwin, il filosofo Karl Marx scrisse a Friedrich Engels una lettera nella quale prendeva apertamente posizione in favore del naturalista inglese. In seguito Marx propose a Darwin di dedicargli il secondo libro del Capitale ma Darwin non accettò, perché non era a conoscenza dell’intera opera e, pertanto, non poteva approvarla in modo aprioristico.

Marx e Engels pensavano che la teoria Darwiniana avesse in sé elementi critici verso il capitalismo e l’economia del mercato e di questo si potesse trovare risconto nella storia naturale. Ovviamente si sbagliavano perché nel corso del secolo successivo le teorie di Darwin vennero spesso messe in relazione con le dinamiche del libero mercato, equiparare i mercati al mondo naturale non era un elemento screditante, anzi, se essi  apparivano naturali acquistavano più forza nell’immaginario collettivo.

“Se Madre Natura aveva creato le meraviglie del pianeta mediante un algoritmo di spietata competizione tra agenti egoistici, per quale motivo i nostri sistemi economici non avrebbero dovuto seguirne l’esempio?”

Ma il punto fondamentale che i due filosofi non avevano colto aveva poco a che fare con la competizione naturale, la guerra della natura, bensì con un’altra profonda riflessione che Charles Darwin aveva messo per iscritto nei suoi diari al momento di lasciare le Isole Keeling.

“E’ interessante contemplare una plaga lussureggiante, rivestita da molte piante di vari tipi,  con uccelli che cantano nei cespugli, con vari insetti che ronzano intorno, e con vermi che strisciano nel terreno umido, e pensare che tutte queste forme così elaboratamente costruite, così differenti l’una dall’altra in maniera così complessa, sono state prodotte dalle leggi che agiscono intorno a noi.”

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Quindi in natura non c’è solo lotta competitiva, la guerra della sopravvivenza alla base della selezione naturale, ma anche e soprattutto un grande movimento di forze collaborative e connettive.

Spesso è la coesistenza, la simbiosi tra esseri molto diversi a caratterizzare in modo evidente i processi naturali.

Questa constatazione porta a concludere che “la competizione non ha il monopolio dell’innovazione”, infatti se la concorrenza può trasformare le idee in prodotti è molto spesso vero che le idee vengono da altri luoghi.

Anche Paul Samuelson, nel suo volume Economia, ricorda che solo una percentuale molto limitata dell’innovazione di prodotto proviene dai laboratori di ricerca e sviluppo delle grandi imprese.

Allora da dove vengono le idee innovative?

Certamente la possibilità di guadagno e di incentivi finanziari tipici di un’economia di mercato sono catalizzatori importanti e ciò farebbe pensare che il primo quadrante, quello in cui si combinano le attività individuali e le opportunità di mercato, possa essere l’ambiente più fecondo.

In realtà non è così, è invece il quarto quadrante, ove non c’è mercato ma esistono forti possibilità di connessione usando piattaforme di relazione e comunicazione, ad apparire come l’ambiente migliore per l’innovazione.

E’ necessario però ricordare che il mercato, soprattutto negli ultimi anni, ha adottato forme restrittive di regolazione, modelli di difesa dei brevetti e del copyright creando sistemi di “inefficienza funzionale” che non favoriscono i processi innovativi.

Tali sistemi sono diversi, certamente più competitivi dei quelli caratteristici delle anacronistiche economie pianificate dei paesi socialisti, prodotti dalle teorie di Marx e Engels, dove vigeva il principio asfissiante della gerarchia decisionale, ma ugualmente poco accoglienti e stimolanti.

Il quarto quadrante ove, invece, l’assenza del mercato si combina con le reti, può essere  anche definito l’universo dell’ “Open Source”, un ambiente in cui le idee innovative e le dinamiche conseguenti possono abitare con successo e soprattuto moltiplicarsi rapidamente.

“Il quarto quadrante dovrebbe ricordarci che non esiste un’unica formula per l’innovazione. Le meraviglie della vita moderna non sono emerse esclusivamente dalla concorrenza di proprietà intellettuale tra aziende private. Sono emerse anche dalle reti aperte”.

Sono il prodotto di un’economia ibrida (Lawrence Lessig) che mescola le reti aperte della libera dimensione intellettuale con gli elementi fondanti dell’iniziativa privata.

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Quentin Tarantino. Il giardino della casa delle foglie blu

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Kill Bill è una serie di film, composta da due volumi sceneggiati e diretti da Quentin Tarantino. Inizialmente doveva essere un unico film, ma a causa della sua lunghezza, superava le cinque ore, venne diviso in due: Kill Bill volume 1 e Kill Bill volume 2.

Una giovane donna, Beatrix, la Sposa, interpretata dall’attrice Uma Thurman, è vittima di una strage compiuta in una chiesa proprio il giorno del suo matrimonio, incredibilmente rimane in vita e dopo un lungo stato di coma si risveglia; da quel momento il suo principale obiettivo è trovare i cinque responsabili e ucciderli.

Il numero uno della sua “death list five” è O-Ren, interpretata dall’attrice americana di origine cinese Lucy Liu.

Nella residenza di O-Ren, la casa delle foglie blu, avviene un combattimento terribile tra la sposa e le numerose guardie del corpo (gli 88 folli) di O-Ren Ishii (mocassino acquatico) esponente di punta della Yakuza di Tokyo.

La Sposa riesce a uccidere, decapitare, mutilare i soldati e le soldatesse di O-Ren che a folate si lanciano contro di lei, poi rimasta sola nella grande casa va alla ricerca della sua nemica.

O-Ren l’attende all’esterno, nel suo personale giardino d’inverno.

Quando la leggera porta di legno e carta di riso scorre lo scenario cambia completamente.

Appare un tranquillo giardino ricoperto di neve e neve scende leggera e densa nel buio della notte.

Il contrasto tra l’interno della casa e il giardino giapponese è forte, non solo dal punto di vista iconografico, ma soprattutto per ciò che evoca nel rapporto tra realtà e virtualità.

Albert Borgmann nel suo saggio “Informazione, vicinanza e lontananza” sottolinea come in una dimensione reale il dato informativo venga dall’approccio euclideo, un’attenzione alla metrica e alla scansione numerica, mentre nello spazio virtuale gli elementi su cui si basa la conoscenza sono tòpoi, sequenze di segni e simboli che indicano percorsi, connessioni e relazioni.

“Nello spazio tolopologico le distanze sono irrilevanti, contano le connessioni e le continuità”.

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L’immagine del giardino giapponese, così silenzioso, diverso e ricoperto di neve muta profondamente la scansione del racconto, fino a quel momento erano i numeri e il tempo a guidare il movimento, anche lo sguardo dello spettatore, poi, improvvisamente, superata la porta del giardino, le cose, ciò che accade o sta per accadere, rivelano la presenza di proprietà e relazioni che non possono essere comprese se non provando a leggere oltre il segno.

O-Ren lascia i mocassini e si prepara a combattere scalza sulla sua neve, in una condizione in cui mancano tutti i punti di riferimento, in uno spazio simbolico rovesciato ove invece della pacifica forbice del giardiniere ora è permesso il solo lavoro delle lame.

La Sposa ha una tuta gialla orlata di nero, molto simile a quella che indossava Bruce Lee.

Il combattimento inizia come tra due Samurai e parafrasando l’Hagakure, il libro che trasmette per aforismi l’antica saggezza dello spirito del Bushido, avviene non all’ombra delle foglie ma all’ombra della neve.

La Sposa è in difficoltà, sembra avere la peggio, O-Ren sbaglia perché la schernisce, così la sposa si fa acqua e l’acqua è l’unica sostanza che, come il virtuale, non conosce la dimensione del vicino e del lontano, il fiume scorre e l’acqua è sempre la stessa: alla fonte, nel torrente, nel fiume, alla foce e in mare.

Quando la Sposa diventa acqua smette di pensare e quindi non ha più paura e non prova dolore, l’acqua si adatta a tutto, il suo è lo spazio del sentire.

O-Ren muore, un colpo di spada le toglie di netto lo scalpo e le scoperchia il cranio, liberandola per sempre dai buoni e dai cattivi pensieri.

Il giardino giapponese di Quentin Tarantino offre una sintesi di metafore che attengono alla sostanza dei concetti di vicinanza e lontananza, infatti non c’è nulla di più vicino e di più lontano di un giardino giapponese sotto il profilo delle emozioni e del simbolismo. Il giardino richiama la casa, gli affetti, la vicinanza ma al tempo stesso invoca la lontananza, il mistero dell’origine e della vita, quindi categorie concettuali che confondono e talvolta spaventano.

I segni naturali spesso hanno più forza dei segni convenzionali e intenzionali, ma la vera differenza sta nella difficoltà di comprendere le relazioni che esistono tra un piccolo lembo di terra e l’immensità inconoscibile dello spazio naturale.

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Steven Johnson. L’adiacente possibile

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Lo scienziato inglese del diciannovesimo secolo Charles Babbage è noto soprattutto per due invenzioni: la macchina differenziale e la macchina analitica.

La macchina differenziale era un congegno molto complesso, pesante e ingombrante, pesava quindici tonnellate e era costituito da oltre venticinquemila parti meccaniche, il suo scopo era ottenere tabelle trigonometriche utili alla navigazione. In occasione del centenario dalla morte di Babbage il Museo delle scienze di Londra ne ha costruito un modello che è subito stato in grado di produrre risultati accurati nel giro di pochissimi secondi.

La macchina differenziale poteva quindi superare di gran lunga le possibilità di calcolo ottenibili a quei tempi.

Steven Johnson nel suo libro “Dove nascono le grandi idee, storia naturale dell’innovazione”, a proposito della macchina differenziale di Babbage, scrive: “Ma, malgrado la sua complessità, la macchina differenziale rientrava ancora ampiamente nell’adiacente possibile della tecnologia vittoriana”.

Questo dell’adiacente possibile è un concetto interessante e decisamente funzionale ai percorsi innovativi. Anche se siamo abituati a pensare alle innovazioni come a salti in avanti nel tempo e nello spazio o a scarti improvvisi dovuti alla genialità dell’inventore, dobbiamo convenire che la storia del progresso culturale, artistico e scientifico è paragonabile alla “vicenda di una porta che conduce a un’altra porta, l’esplorazione di un palazzo una stanza alla volta”.

Aprire una porta può portare a una scoperta in grado di modificare profondamente lo stato delle cose, ma anche più semplicemente a un’applicazione per diffondere le ricette su Internet, oppure a un sistema innovativo nella gestione di un asilo.

L’esplorazione dei confini intorno a noi, entrando nelle dinamiche che mettono in gioco i limiti e le possibilità, è la modalità che consente di avvicinarsi all’adiacente possibile, considerando che quasi sempre i limiti, come le possibilità, sono interni o meglio interiori, un portato psicofisico che è il prodotto delle nostre condizioni mentali e di quelle dell’ambiente nel quale viviamo e operiamo.

Se la nostra spinta innovativa non è condivisa dell’ambiente e l’ambiente blocca le nuove iniziative, perché non le capisce oppure perché è orientato alla difesa di uno status quo ritenuto appagante, è molto difficile uscire dal contesto e indagare nuove possibilità, se invece l’ambiente incoraggia i suoi abitanti a esplorare l’adiacente possibile “rendendo disponibile un campionario più ampio e versatile di parti di ricambio – meccaniche o concettuali – e promuovendo modi nuovi di ricombinarle” allora la possibilità che nascano nuove idee aumenta in modo rilevante.

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Spesso però le idee che hanno in sé un carattere troppo rivoluzionario per il tempo in cui vengono espresse non ottengono successo, anzi vengono considerate dai contemporanei dei fallimenti, ciò vale per un’innovazione scientifica come per un prodotto. Pochi oggi ricordano il tablet lanciato da Microsoft nei primi anni duemila al Comdex, tutti, al contrario, hanno in mente, dieci anni più tardi, l’I pad associato all’immagine di Steve Jobs.

A venirsi a trovare in questo stato sono le innovazioni troppo in anticipo sui tempi e la questione riguarda anche l’ideazione della seconda macchina progettata da Charles Babbage: la macchina analitica.

La macchina analitica era così complicata che non superò la fase di progettazione se non per un’applicazione parziale che Babbage costruì poco prima di morire.

La macchina analitica è stata definita il primo prototipo di computer programmabile, non era progettata per funzioni specifiche come la macchina differenziale, ma aveva, al pari dei computer moderni, un carattere versatile, “era proteiforme, capace di reinventarsi in base alle istruzione fornite dai programmatori”.

I programmi venivano inseriti nella macchina utilizzando schede perforate, le stesse che erano a quei tempi usate per far funzionare i telai industriali, i dati e le informazioni potevano essere raccolte in un magazzino, la memoria del computer.

Le applicazioni dei concetti che avevano portato Babbage a inventare la macchina analitica hanno visto la luce nella prima metà del secolo scorso, quindi cento anni dopo la scoperta dello scienziato inglese.

La macchina analitica non ebbe successo per un motivo principale, era costituita di innumerevoli parti meccaniche, difficili da costruire, reperire e manutenere, l’elettronica, infatti, era di là dall’essere inventata.

Babbage evidentemente aveva, in un colpo solo, aperto troppe porte, sconfinando dall’adiacente possibile in un universo impalpabile ancora sconosciuto.

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Ken Goldberg. Una finestra sul giardino

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L’arte, in special modo la pittura, ha nel corso della storia fornito innumerevoli prove di rappresentazione della realtà spesso rivelando particolari immediatamente non percettibili o penetrando la dimensione opaca della materia.

La pittura del passato non ha mai cercato di sostituirsi alla natura ma di riproporne le forme in modo diverso e innovativo, al contrario di alcune manifestazioni d’arte della contemporaneità per questo asettiche e stereotipate.

Internet e la possibilità di fruire di immagini a distanza, usando webcam o telecamere digitali, introduce un elemento nuovo e potente nell’esperienza naturale: l’esperienza della lontananza mediata  dall’uso del computer.

Se come giustamente sostiene Catherine Wilson, autrice de “Il mondo invisibile” vi sono sempre meno giardini e più robot, il compito della tecnologia, però, è quello di rivelare il mondo naturale, come una finestra o un telescopio.

La mediazione della rete dei computer ha un ruolo importante nell’ambito dei nostri processi cognitivi e del loro sviluppo, perché da sempre la conoscenza ha un rapporto stretto con la dimensione fisica dei fenomeni. Conoscere non è possibile se non esiste un buon grado di certezza e di affidabilità in ciò che accade, perché la conoscenza si sviluppa e si sostanzia attraverso le prove e la verifica di quanto è giusto e sbagliato. Molto spesso è proprio l’errore a far evolvere il processo cognitivo e l’errore per essere compreso deve essere effettivamente accertabile.

Il libro di Ken Godlberg prende spunto dal “Telegarden” un’istallazione di arte telerobotica su Internet ove utenti remoti, usando un robot, seminano e innaffiano un giardino realmente esistente situato nel Museo di Arte Elettronica a Linz in Austria. I visitatori possono anche monitorare gli effetti delle loro azioni sullo stato del giardino.

Il Telegarden è stato messo in rete nel giugno del 1995 ed è rimasto on line continuativamente per sette anni successivi, l’applicazione è stata sviluppata alla Southern California University, nel primo anno più di novemila utenti hanno aiutato a coltivarlo.

Un visitatore può quindi innaffiare il giardino a distanza premendo l’apposto tasto sul display del computer, il computer risponde che il robot sta innaffiando il giardino e il visitatore è portato a credere che tutto ciò stia effettivamente avvenendo.

Credere, comunque, non è sapere con certezza, perché in questo caso la discriminante tra vero e falso è difficilmente percettibile.

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Quando innaffio il giardino e l’azione avviene nella realtà è certo che lo sto facendo mentre non è così sicuro che stia accadendo in un giardino a centinaia di chilometri di distanza. Credere che sia vero è ben diverso dal fatto che sia effettivamente vero, perché quest’ultimo aspetto si coniuga in modo stretto con il concetto di affidabilità.

Il giardiniere, come il contadino rurale, ha poca fiducia negli intermediari, figurarsi se poi l’intermediario è una macchina posta a una notevole distanza. Ogni giardiniere crede nelle sue tecniche spesso trasmesse da chi l’ha preceduto, i vecchi, o acquisite con l’esperienza, quindi attraverso una sequenza numerosa di prove, successi ed errori.

Il giardiniere ha un rapporto di contigua vicinanza con le sue opere, come del resto era per Claude Monet con la sua aiuola acquatica, gli effetti della semina, della potatura, dell’irrigazione sono immediatamente riscontrabili.

La lontananza, invece, oltre a mettere in discussione l’effettiva veridicità di ciò che avviene, modifica sensibilmente la curva dell’esperienza perché entrano in gioco fattori esogeni incontrollabili, quali ad esempio la temperatura, la luce e soprattutto le modalità di mediazione dei comandi. A irrigare e seminare è una macchina, non la mano dell’uomo. E’ una web cam a cogliere lo stato della luce non un occhio umano.

Ciò significa che se anche abbiamo la sicurezza assoluta dell’affidabilità del sistema e della veridicità delle immagini, la lontananza non favorisce la conoscenza almeno nel modo in cui siamo abituati.

“Non posso accertare a occhio nudo se effettivamente una calendula è sbocciata a Linz” ma un’istallazione di telerobotica nel mio giardino lontano può servire come strumento per acquisire dati e informazioni che garantiscano la bontà di ciò che credo stia accadendo davvero. Quindi che sia sbocciato un fiore di calendula.

Il giardino lontano, intermediato dalle applicazioni tecnologiche, trasforma il giardiniere della vicinanza nel giardiniere della lontananza, una specie di analista di processi naturali riscontrabili e valutabili attraverso l’incrocio e l’analisi di dati e informazioni raccolti nel tempo.

Il processo di gestione e conoscenza del giardino lontano, nell’epoca della rete, dipende anche dalle nuove forme di rappresentazione e quindi dalla qualità, dall’affidabilità e dalla usabilità delle interfacce.

Artists Garden of Irises Claude Monet