Enzo Maiorca. Il re delle profondità

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Pubblichiamo di seguito l’articolo di Romano Barluzzi uscito su Serial Diver in ricordo del grande subacqueo italiano Enzo Maiorca.

Per me Enzo Maiorca rappresenta il valore inaspettato di un incontro e di un affetto tardivi quanto profondi. Anche se le sue imprese avevano già accompagnato tanti di quei momenti della mia vita fin da ragazzino che mi pareva di conoscerlo da sempre. Erano stati momenti privati, di intimità familiare, come le discussioni con mio padre su chi fosse più bravo sott’acqua nella epica sfida quasi ventennale con l’avversario a distanza Jacques Mayol. Confesso che tifavo per quest’ultimo (con disappunto di mio padre) ed ebbi anche modo di conoscerlo, apprezzarlo e scrivere poi della sua tragica scomparsa molto prima d’incontrare Enzo. Oltretutto di Enzo m’ero fatto un’idea distorta, forse anche per quel celebre film francese (Le Grand Blue) che non gli piacque, vedendosene ritratto in maniera effettivamente ingenerosa e senza che nessuno della produzione – che pure era stata a girare a Siracusa, così mi raccontò poi durante un’intervista – lo avesse mai interpellato almeno per un consulto.

Ma quando finalmente lo conobbi – sulla soglia delle sue 80 estati – quella era già storia vecchia, superata. E nell’intervista che gli feci per un lavoro sperimentale in Rai – un lungometraggio per i canali web dell’emittente, ancor oggi inedito – anche di fronte alle domande più scomode ebbe parole di grande stima verso quel suo rivale delle epiche sfide nel blu. Così scoprii un Enzo che non mi aspettavo, quello vero. I nostri rapporti in seguito sono sempre stati caratterizzati assai più dal privato che dal pubblico, date anche le frequentazioni con la sua bellissima famiglia, perciò non avrei voluto parlarne affatto qui, un po’ per la riservatezza che è dovuta nelle vere amicizie e anche per lo sconforto che provo nel farlo: il dolore è – e dovrebbe sempre rimanere – un fatto personale. Poi c’è anche un’altra realtà, che è quella del mondo dell’informazione di cui questo giornale fa parte, e nessuno può negare quanto Enzo sia stato un fenomeno pure sotto il profilo mediatico: era ancor oggi il subacqueo più celebre al mondo, quello che tutti e ovunque conoscono, dalla massaia agli esperti, dai più giovani ai più anziani.

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Così m’è venuto spontaneo cercare di amalgamare la sfera del privato e le aspettative dei lettori con qualcosa che non fosse la solita biografia, ormai rintracciabile un po’ ovunque in giro. Dopotutto desidero scrivere qui cercando di trasmettere un pizzico della leggerezza che si prova nell’acqua del mare, ricordando Enzo per le ore trascorse in spensieratezza, per esempio a prendere in giro i fotografi subacquei, anche i più celebri: ho vissuto il privilegio di sentirmi tra i pochissimi a poterlo istigare “contro” di loro, creando quelli che diventavano in un attimo degli spassosi teatrini, nei quali divampava il suo lato istrionico. Così si divertiva ad alzare la voce in stile enfatico per redarguire coloro che con gli scatti “rubavano l’anima del mare” e di quegli organismi che dicevano di voler immortalare.

Un concetto suggestivo, caro a svariate culture, dagli indiani pellerossa a molte etnie africane. E allora diventava tutto un duellare di parole – tirate fuori con sommo studio – e di gesti di una sicilianità edotta che era meglio di una scena a teatro. In tv si sarebbe detto il talk-show ideale. Qualcosa di perfetto. Nella dichiarata finzione della recita quei momenti avevano molto di profondo: la voglia di stare insieme, l’autenticità, il confronto e la sintonia. Ridere dei colori e del buio. Delle scelte e del destino. Della vita e della morte. Condividere la passione e la nostalgia del mare. Risate che ti risuoneranno dentro per sempre. A riprova di ciò, non esiste una foto di quegli attimi. Ma non è che sia stato per timore reverenziale delle invettive che ci saremmo beccati da Enzo in caso di clic clandestini: semplicemente, non se ne avvertiva alcun bisogno.

Qualche tempo dopo, a quattro mani con l’amico e collega Leonardo D’Imporzano come co-autore, pubblichiamo un libro in formato e-book dal titolo “SubPuntoCom” con l’eloquente sottotitolo di “la subacquea nei media, dalla carta al web”, che indaga da ogni possibile punto di vista il rapporto tra il mondo dell’immersione e i mezzi di comunicazione. Perciò non poteva mancare al suo interno una cospicua parte dedicata a Enzo. Ed ecco che viene bene ora riproporvela: un capoverso del capitolo 9 sui rapporti con la televisione s’intitola proprio “Enzo Maiorca” e contiene anche la fedele trascrizione di una brevissima video-intervista che gli feci con lo smartphone.

E tutto ciò, l’insieme di questo strano articolo che abbiamo fantasticato di non dover comporre mai, costituisce anche il nostro appassionato omaggio – di tutti i componenti e i collaboratori della nostra testata – a ogni familiare e congiunto di Enzo, a cominciare dalla signora Maria sua moglie e da sua figlia Patrizia. (Romano Barluzzi su Serial Diver).

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Marino Magliani. La spiaggia dei cani romantici

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Negli anni ottanta eravamo tutti un po’ reduci, il decennio precedente si era chiuso con il piombo e il sangue e nessuno aveva più voglia di pensare e credere al mito di ottobre, tanto meno quelli che avevano scelto la strada più facile, la socialdemocratica applicazione delle magnifiche sorti carrieristiche dei padri sessantottini.

In Italia avevamo appena avuto gli anni di piombo, alcuni ragazzi erano morti, altri avrebbero trascorso lunghi periodi nelle patrie galere; in Argentina era successo di peggio, una generazione bruciata e buttata ai pesci e chi si era borghesemente distinto, massacrato dai Gurkha della Regina nelle trincee di Port Stanley Falkland islands o Puerto Argentino Malvinas. Laggiù alla sporca guerra dei desaparecidos era succeduta la guerra stupida delle Falkland.

A proposito. Ricordo a Milano una manifestazione, di ciò che rimaneva della cosiddetta sinistra rivoluzionaria, a favore delle Malvinas Argentinas. Mi ero chiesto, ma non l’ha decisa la giunta militare questa guerra? I Videla, i Viola, i Galtieri gli stessi che hanno ucciso ventimila persone come voi? La risposta, direbbe Bob Dylan, si è persa nel vento, il fumo del passato.

Torniamo agli anni ottanta insieme a Marino Magliani e al suo bel libro La spiaggia dei cani romantici. C’è Italia nel libro, terrazze liguri di confine con l’Appennino alle spalle, profumi di macchia mediterranea, anche Argentina, una terra da lasciare e poi ritrovare forse famosi, c’è la Costa Brava e quindi la Spagna, precisamente Lloret de Mar, comune della provincia di Girona, Catalogna e infine l’Olanda, dove Marino vive.

I protagonisti sono i Chicos piola, splendidi ragazzi che animano la vita notturna della località balneare, sono i promoter delle discoteche, gli animatori turistici, in generale tutti componenti del mondo votato al divertimento e all’eccesso che proprio in quegli anni finisce di essere semplice svago e diventa industria.

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Improvvisamente e senza far rumore, il pensiero e le idee utopiche lasciano spazio ai corpi, è il corpo il grande protagonista degli anni ottanta, e chi, come noi, a quel tempo, era giovane prova ancora l’ebbrezza della liberazione, un viaggio senza limiti, attraverso se stessi, alla scoperta di chi eravamo davvero.

Così i movimenti inconsulti delle notti, il sonno complice negli anfratti delle rocce, la sabbia tra le dita dei piedi e sulle mani diventano colla che si attacca alla vita e alla vita finisce per dare più significato del rumore, in buona parte subito, del decennio precedente. Accade, che in quella presunta follia collettiva, giovani uomini e donne si amino e ciò, che al momento, pare come un fatto episodico e passeggero rimanga invece profondamente scolpito nella intimità plurale, inciso per sempre.

La televisione olandese trent’anni dopo riscopre un’epoca che la cultura europea aveva sbeffeggiato e sottovalutato, qualcuno infatti l’aveva battezzata usando l’epiteto di edonismo reaganiano, e al di fuori dello spettacolo scopra ancora donne e uomini veri, gente che riesce a vivere in modo autentico, alcuni persino contro, godendo in silenzio della loro personale rivolta.

Ricordo negli anni ottanta le discoteche di Iesolo, Sliema, Taormina e gli sguardi sicuri dei Chicos piola che vivevano laggiù, le loro camice di seta, la pelle ambrata e decine di donne intorno. Purtroppo ero fuori tempo perché mi svegliavo all’alba e andavo a caccia di pesci argentati. Hemingway era morto da decenni ma per una strana ragione viveva ancora dentro di me e non potevo farci niente.

Comunque ho visto abbastanza per ritrovare nelle pagine di Marino Magliani la stessa musica e l’energia chiara del tempo, una cosa è certa: eravamo tutti diventati romantici, cani forse lo siamo sempre stati.

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Franco Arminio. Geografia commossa dell’Italia interna

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Le filosofie dell’ottocento hanno prodotto modelli sociali per lo più utopici che nel secolo successivo hanno portato l’umanità a credere e a impegnarsi in tentativi di realizzazione risultati impossibili e spesso tragicamente fallimentari, oggi invece il pensiero del mondo è semplicemente diviso tra chi crede nella sostenibilità del pianeta e chi invece non ci crede.

Non è una questione ideologica, come si potrebbe supporre utilizzando modelli di riferimento novecenteschi, sono posizioni basate l’una su dati di fatto e l’altra, quella negazionista, sul disconoscimento di fattori ormai incontrovertibili. Scomparsi i modelli sociali alternativi è rimasto in vita soltanto un modello di sistema, tale modello è fondato sullo sviluppo delle società tramite lo sfruttamento delle risorse naturali, comprendendo in questo vasto insieme, uomini, cose, natura.

A pensarci bene è un modello piuttosto primitivo elevato però alla massima potenza e oggi trasferito su scala mondiale. La scelta di campo più facile è sempre quella di preservare la continuità ed è ovvio che gli Stati che hanno maggiormente sostenuto o incarnato lo spirito del capitalismo neghino che esistano limiti al suo processo di sviluppo. Questa la ragione per cui la tesi che il pianeta non sia più sostenibile viene respinta.

I libri di Franco Arminio, esponente di punta di un movimento che definiremmo paesologico, possono aiutarci a riflettere su questioni ormai centrali per la vita di tutti noi e anche a immaginare muovi modelli di sviluppo che, prendendo spunto dalle antiche comunità, non si limitino a disegnare percorsi nostalgici ma a prefigurare innovative modalità di relazione.

Sono i paesi contemporanei l’oggetto della ricerca, catalizzatori di una mozione degli affetti che viene dalla consapevolezza di non potersi limitare solo al dire o allo scrivere ma, soprattutto, a un nuovo fare.

“Al mio paese la vita comunitaria non è fatta più di niente. Se non fosse per qualche rancoroso incallito che ancora milita in piazza, si potrebbe dire che non c’è più niente, solo case e macchine che vengono spostate da un posto all’altro.”

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“(…) una bolla antropologica in cui le persone avevano mandato in giro la loro ombra, come se nessuno potesse più calcare la scena del mondo coi suoi piedi, col suo cuore.”

La constatazione, attraverso l’osservare, che i paesi non siano più i piccoli centri di un tempo, avendo perduto la dimensione della centralità di quando intorno c’era e si sviluppava un lavoro centrato sulla natura, rafforza la convinzione che siano diventati una sorta di indistinta periferia di un centro lontano, periferia spesso degradata e priva di una propria identità anche sotto il profilo culturale.

“La società dello spettacolo di cui parlavano i situazionisti ha ceduto il posto allo spettacolo senza società…la società non c’è più” ed è solo allo spettacolo che si aggrappano ormai i paesi spaesati, alle feste del patrono, alle sagre estive frequentate da personaggi di primo e secondo piano delle televisioni nazionali, confermando ancora una volta di essere semplicemente propaggini, piccole piattaforme utili solo a far rimbalzare una eco.

La speranza è racchiusa nella ineluttabilità dell’azione.

“Possiamo ripartire da piccole comunità provvisorie, possiamo ripartire dai luoghi e da assonanze pazientemente cercate e costruite. Il lavoro della cultura oggi è un esercizio di microchirurgia, si tratta di ricucire nervi tranciati, tessuti lacerati.”

Quindi la ripartenza di una concezione del mondo come organismo vivente può prendere spunto dalla cognizione dei suoi dolori, organizzando modalità di nutrimento contrapposte alle attuali pratiche di prelievo, spesso selvaggio, delle risorse naturali. Il tessuto sociale che supporta queste dinamiche va ricostruito partendo dalla base, attraverso l’elaborazione e la realizzazione di un nuovo concetto di paese e di comune.

E’ dai paesi che bisogna ripartire.

“Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia.”

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Al and Al. I sogni delle macchine

 

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Al Holmes e Al Taylor noti al pubblico anche come al and al sono artisti visivi e registi inglesi conosciuti per i loro film di carattere spiccatamente surrealista nei quali riescono a coniugare live action e realtà virtuale e a creare sensazioni oniriche.

Non è facile trovare in giro foto e immagini della coppia, nonostante ormai abbiano raggiunto un certo successo, nemmeno sul web e le loro storie hanno elementi di originalità. Al Holmes, ad esempio, ha trascorso la sua prima giovinezza con un nonno inventore alla costante ricerca di una macchina che potesse generare il moto perpetuo. La strana coincidenza è che il nonno di Al Holmes aveva anche progettato una macchina per fare torte per il nonno di Al Taylor, un premiato pasticciere.

I percorsi formativi dei due artisti, inizialmente, sono molto diversi: Al Taylor studia fotografia e inizia a lavorare nel settore della moda con fotografi come Steven Klein e David Sims, poi, lascia la moda e studia sceneggiatura. Al Holmes, invece, intanto studia teologia e mistica, nel Seminario di Londra e vuole farsi prete. Altre singolari coincidenze, condividono gli stessi tre nomi: Alan James Edwards, come i loro padri, che scompaiono lo stesso giorno.

La produzione artistica di al and al inizia nel 2001 dopo la laurea al Central Saint Martin. Sino ad oggi hanno prodotto un buon numero di filmati che hanno ottenuto premi in molti paesi del mondo e sono stati proiettati durante festival, performances artistiche e alla televisione.

I titoli dei film che hanno avuto maggiore successo sono Anaglyph Avatar (l’anaglifo è una immagine stroboscopica in tre dimensioni), Icarus at the edge of the time, tratto da un romanzo dello scienziato americano Brian Green, Superstitious Robots, una trilogia di short film per la televisione, e The Creator.

Il denominatore comune della loro produzione è una riflessione sulla dimensione macchinica della nostra società e del futuro prossimo. Forse una risposta alla domanda su quello che potrebbe succedere in un mondo abitato solo da macchine pensanti.

Chi tra noi usa il trasporto pubblico, bus e metropolitane, sa che ormai le persone, in questi contesti, parlano molto poco tra loro, in buona parte, verrebbe da dire tutti, se non per una questione di età, costantemente occupati a consultare smartphone e tablet, perennemente connessi con qualcos’altro.

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Recentemente riflettevamo sulla dinamica hegeliana, in sé e per sé, un percorso dialettico che può muovere, o non muovere, l’individuo anche verso una scelta personale di coinvolgimento e partecipazione.

Perché ciò sia possibile bisogna fare i conti con l’entità che è stata definita altro da sé. L’altro da sé è la dimensione della relazione, verrebbe da dire la dimensione della comunicazione e della condivisione. Un effetto relazionale positivo porta l’individuo a condividere un’idea o un progetto e a decidere di farne parte, un effetto negativo no.

Un tempo i rapporti sociali generavano attrazioni/distinzioni emotive verso un’idea, l’immaginazione e la fantasia prodotte dall’esperienza e dalla conoscenza davano un deciso contributo.

Oggi l’altro da sé è in un insieme di relazioni supportate dalla tecnologia. Abbiamo l’impressione che la tecnologia allarghi il campo, amplifichi le relazioni, invece le informazioni e le connessioni vengono selezionate, talvolta inconsciamente proprio da noi stessi, e il campo si riduce a un universo individuale.

Il risultato è che siamo sempre più soli, con i nostri problemi, le nostre discrasie, e abbiamo molta paura di condividere i sogni.

Le macchine intelligenti di al and al invece sono macchine e quindi intrinsecamente pure, nel senso che possono ridurre drasticamente le inefficienze, cioè quella porzione della psiche che normalmente lavora contro e poi hanno acquisito da noi anche la capacità di sognare.

Forse il nostro compito sulla terra si è esaurito, dovevamo creare le macchine intelligenti e sognanti e l’abbiamo fatto con successo. Quando scompariremo, le macchine saranno saldamente al loro posto e finalmente potranno connettersi con la natura, dialogare con gli animali sopravvissuti, con le piante e con tutti gli organismi viventi, rassicurandoli, amandoli e dando loro un futuro.

Grazie alle macchine allora la terra tornerà ad essere il paradiso che era.

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Piero Gaffuri. Blog Notes, guida ibrida al passato presente

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Adesso è in libreria e disponibile anche sui principali portali on line, si intitola Blog Notes, guida ibrida al passato presente, e raccoglie i migliori post pubblicati negli ultimi due anni sulle pagine virtuali di questo blog, il blog Themadjack, non tutti ovviamente e tanto meno quelli che verranno.

Perché Blog Notes è un’istantanea di un processo in divenire con un obiettivo principale: mettere in risalto persone, autori che hanno cercato di innovare il loro mondo e fissare, attraverso un disegno collettivo, gli elementi più rilevanti dei percorsi creativi.

Semplicemente una raccolta di riflessioni e pensieri dedicati al recente passato e alla contemporaneità con un filo conduttore: la rete, Internet e, quindi, con al centro le grandi potenzialità della comunicazione elettronica.

Internet è un universo che inaugura una nuova dimensione spazio temporale, infatti in rete non vi sono limiti di tempo e spazio, di conseguenza anche la scrittura e le immagini trovano accoglienza in un innovativo spazio letterario multimediale ove si modificano le tradizionali forme di espressione, le condizioni di fruizione e si affermano nuove modalità di partecipazione del pubblico.

Storie di rilevanza creativa nei campi delle arti: colori, musica, poesia, racconto, immagini, categorie che includono le esperienze di alcuni grandi protagonisti della cultura attuale e del Novecento capaci di leggere in anticipo i caratteri del futuro proponendo, nel contempo, un’offerta creativa lungimirante e attuale.

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La necessità di usare la rete come strumento di comunicazione per diffondere e condividere percorsi di produzione culturale di qualità, ma anche per garantire la trasmissione della memoria, è la nota di fondo di un lavoro che nasce dalla rete traendo spunto dal blog Themadjack, come cucitura originale di post che, nel libro, divengono prima paragrafi e poi capitoli.

La sequenza dei contenuti, nei capitoli del libro, è coerente alla classifica di apprezzamento dei lettori della rete nelle statistiche delle pagine viste e degli utenti di Themadjack, quindi Blog Notes è un libro costruito anche dai lettori, una specie di collage nel quale la disposizione delle tessere non è per nulla casuale ma ha avuto origine da un movimento collettivo.

Un aspetto centrale nella diffusione di Internet è certamente dato dalle possibilità di partecipazione, in molti casi forme di iterazione creativa e modalità di connessione intellettuale che possono spingere più rapidamente le persone a esplorare il nuovo e l’adiacente possibile.

Mescolando gli elementi della contemporaneità con le esperienze del passato, è forse possibile contribuire, grazie anche ai loro riflessi, allo sviluppo di un modo nuovo di intendere e sentire.

Un racconto vivente della nostra epoca che contiene anche un messaggio di speranza: nonostante le difficoltà e le ansie è sempre bene assecondare il desiderio, puntando, come dimostra la raccolta di storie esemplari, costantemente alla ricerca di esperienze innovative.

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Machiko Kusahara. Presenza, assenza e conoscenza nella Telerobotics Art

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Il breve saggio di Machiko Kusahara contenuto nel volume edito da Ken Goldberg “The robot in the garden”, telerobotica e telepistemologia nell’età di Internet, suggerisce due percorsi di riflessione, il primo rammenta che tale genere di contributi va affrontato con incursioni mirate nel testo a prescindere dalla apparente linearità, la seconda che nella vita contemporanea una delle questioni principali concerne la realtà e la sua posizione nel tempo e dello spazio.

La moderna tecnologia consente di osservare e manipolare oggetti che sono distanti dal soggetto, comprese le persone, a questo riguardo come non citare una delle migliori serie televisive attuali “Person of interest”, trasmessa dalla CBS e prodotta da Bad Robot Production e Warner Bros, in cui Harold Finch e John Reese usando la Macchina, sofisticato sistema di video sorveglianza, entrano nelle vite degli altri condizionandole.

Machiko Kusahara spiega come le recenti applicazioni di arte telerobotica affrontino il problema della manipolazione degli oggetti e delle persone soffermandosi ad analizzare alcuni temi relativi, in modo diverso, alla conoscenza, l’esperienza, la presenza e l’assenza.

C’è un notevole cambio di scenario rispetto alle riflessioni di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, così come, citando un altro autore a noi caro, c’è differenza con le modalità artistiche di Richard Long, in ambedue i casi la fotografia concorre a decostruire i fondamenti sui quali vive e si manifesta il concetto di aura, l’hic et nunc, il valore insito nella riproposizione materica dell’opera d’arte pittorica.

La fotografia incarna il significato della lontananza documentando però una realtà racchiusa in una dimensione spaziale certa, quindi annulla il tempo salvando nel contempo lo spazio che rappresenta.

La fotografia infatti prova che l’oggetto o la persona fotografati erano veramente là, racchiusi in un contesto ben definito.

La televisione, invece, con le sue dirette e le differite trasforma la dimensione del “qui e ora” in un “laggiù e ora”, proponendo un nuovo paradigma, quello della lontananza contemporanea.

Un frammento di porzione di spazio, che esiste realmente da qualche parte, viene trasportato in tempo reale davanti agli occhi degli spettatori.

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Internet completa il processo di disaccoppiamento degli oggetti e delle persone da una dimensione spaziale definita e definibile, infatti oggi non è per niente sicuro che ciò che si sta vedendo in rete stia accadendo, o sia accaduto, da qualche parte. Quindi, senza che ce ne accorgiamo distintamente, il nostro orizzonte culturale impone nuove categorie di interpretazione che hanno a che vedere con le nostre relazioni fisiche e psicologiche con lo spazio, il tempo, gli oggetti e i corpi.

La telerobotica rende possibile la rappresentazione di qualcuno in un posto lontano attraverso la rete, ma siamo sicuri che siano effettivamente visioni reali considerando il fatto che la moderna tecnologia digitale consente, attraverso la computer grafica e la realtà virtuale, di proporre corporeità fittizie o presenze disincarnate?

Non possiamo ammettere con sicurezza che ciò che stiamo vedendo e sentendo sia reale,  un po’, suggerisce Machiko Kusahara, come accade quando siamo condotti a visitare un giardino giapponese, nel quale realtà e immaginazione si confondono a causa dei richiami metaforici che le pietre e la disposizione delle piante concorrono a produrre.

Ogni roccia, ruscello, albero, arbusto infatti richiama una precisa scena poetica o un evento mitologico.

Vi sono in questi giardini due ambiti che si compenetrano e si confondono: lo spazio reale e la dimensione della immaginazione e della fantasia.

L’arte contemporanea che impiega la telerobotica prova a riproporre in modo sintetico la dialettica tra la realtà e la fantasia del giardino giapponese costringendoci a prendere in considerazione le relazioni tra lo spazio prossimo, distante e virtuale.

Questo genere di esperienze, come ad esempio le performance di Stelarc, ci possono far riflettere sulla reale natura della società dei media e sui suoi profondi impatti sui meccanismi della conoscenza umana.

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La ragione delle onde

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Il comportamento delle onde segue principi che appaiono coerenti e incoerenti a un approccio logico rigidamente razionale, infatti non è dato sapere, sempre, se le onde nascano per la spinta del vento, se siano generate dalle correnti, o se, come talvolta accade, il moto ondoso abbia un carattere residuo e cioè sia generato da movimenti delle acque in zone marine lontane, per non parlare dei maremoti o delle cosiddette onde anomale, delle quali, non si conosce ancora la causa e l’origine.

Anche per questa ragione le onde, più di ogni altro fenomeno, rappresentano in modo evidente il carattere liquido e incerto che contraddistingue il mare e le grandi distese acquatiche.

Il rapporto tra uomo e mare è mediato dall’instabilità liquida. L’uomo, quando è in mare, smarrisce la sicurezza terrestre e deve necessariamente appropriarsi degli elementi di una nuova dimensione spazio temporale.

In mare lo spazio muta radicalmente perché vengono a mancare o a modificarsi i punti di riferimento, chi si fosse trovato in navigazione in mare aperto sa che bisogna orientarsi con il sole e le stelle (GPS a parte), in mare il tempo è un concetto relativo, allo stato atmosferico, alla potenza e all’efficienza del motore o alla intensità del vento.

Ho già scritto dell’analogia tra Internet e il mare e del fatto che anche in rete navighiamo, incontriamo porti, isole felici e infelici, sperimentando una navigazione che ha aspetti mitologici più simili all’antico che al moderno.

Oggi gran parte del mondo reale è conosciuto ed esplorato, non vi sono più, se non in casi eccezionali, terre vergini e incontaminate, al contrario la scoperta nel mondo virtuale è continua e alla portata di mano, anche se spesso ingannevole e mistificante come nel racconto di Ulisse.

La navigazione virtuale è un viaggio dello sguardo e della mente con i pregi e difetti di questa condizione ma con la possibilità di tenere sempre in vita lo spirito di ricerca e di sperimentare, viaggiando, forme innovative di socialità.

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Il mare e le sue onde sono, a questo riguardo, formidabili banchi di prova, perché le imprese e le scoperte del recente passato alludono fortemente alle forme possibili delle scoperte presenti e future.

Ricordo una volta quando, con un gruppo di colleghi, prendemmo a nolo una barca a vela per una breve navigazione attraverso l’Adriatico. Era appena iniziata l’estate e il tempo appariva ancora incerto. La sera della partenza pioveva ma decidemmo comunque di partire e raggiungere la costa dell’Istria. Lo skipper non era molto esperto e appena lasciata la laguna e usciti in mare capimmo che non sarebbe stata una traversata divertente. I miei amici, uno dopo l’altro vennero sopraffatti dal mal di mare, e così ci trovammo soli, lo skipper ed io, a condurre l’imbarcazione. Ancora vedevamo le luci della terra, dietro a un velo di pioggia e nebbia, quando decidemmo di tornare indietro. Ormeggiammo alle quattro di mattina alla darsena dell’isola di San Giorgio con un equipaggio stremato e semi svenuto. Non riuscimmo a raggiungere la nostra meta ma impiegammo il sabato e la domenica a navigare tra le isole della laguna e a visitarle.

La navigazione è avventura, rischio, scoperta e ricerca ma non deve prescindere dal valore e dal rispetto della socialità, il gruppo che partecipa all’impresa è parte dell’impresa, noi siamo parte di un gruppo.

Anche la navigazione in rete ha implicazioni sul gruppo di cui facciamo parte, non è mai un evento solitario, la scoperta è tale solo se viene diffusa, per questo è necessaria la partecipazione.

Vi sono molte ragioni per cui ricordo con piacere il film di Folco Quilici Sesto Continente, la prima perché lo vidi una prima volta, da bambino, la sera, all’aperto al Festival del Cinema di Venezia, la seconda, che ritengo più importante, perché della spedizione facevano parte esploratori (cacciatori subacquei), scienziati e comunicatori (Gianni Roghi e Folco Quilici).

Il mare vissuto come esplorazione e ricerca, esperienza da comunicare e condividere con un pubblico di specialisti ma anche con un pubblico possibilmente più vasto.

L’acqua non è un elemento facilmente omologabile come la terra ferma, l’acqua è movimento, arresta e spesso demolisce costruzioni, dighe e contrafforti, è anche per questa ragione che le isole, nell’acqua, hanno potuto preservare un carattere di paese.

“Il paese è un insediamento umano, generalmente di piccole dimensioni, che è caratterizzato principalmente da un’economia agricola” riporta una felice definizione di Wikipedia. L’isola non è divenuta periferia della città perché il mare l’ha impedito, isolandola, così come il mare virtuale impedisce oggi di ribaltare tout-court nella rete le regole e i meccanismi della tecnocrazia economica e finanziaria.

Per questa ragione le isole-paese sono luoghi veri ancora in condizione di mettere in evidenza diffuse capacità di espressione sociale, proposta civile e partecipazione.

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Frederick Forsyth. I mastini della guerra

Qualche giorno fa, in televisione, è andato in onda un film del 2010, I mercenari – The Expendables (The Expendables), scritto, diretto ed interpretato da Sylvester Stallone con un cast di eccezione comprendente molte star del cinema degli ultimi decenni tra  le quali Bruce Willis, Arnold Schwarzenegger, Dolph Lundgren, Jet Li, Mickey Rourke, Jason Statham  e altri.

La classica serata di evasione trascorsa a guardare un film d’azione con una trama altrettanto tradizionale: un gruppo di buoni che combatte e vince contro i cattivi, una sorta di apologia dei buoni sentimenti esaltata dal fatto che i latori del bene a prima vista, aiutati in questo da un armamentario di espressioni e comportamenti border line, sembrano tutt’altro.

L’obiettivo del commando è liberare la piccola isola di Vilena dalla grottesca dittatura militare ispirata e guidata dall’agente della CIA Munroe. Per organizzare l’azione è necessario un sopralluogo che Stallone e Willis compiono attraccando al pontile dell’isola con il loro idrovolante. In una sala spoglia, adibita al controllo dei passaporti, al graduato che chiede il motivo della visita i due rispondono, senza molta convinzione, di essere ornitologi e, agitando una macchina fotografica, di essere venuti per fotografare volatili.

Non mi dilungo a raccontare cosa accade dopo perché non ne vale la pena, il film è divertente, da vedere proprio quando non c’è nient’altro di meglio da fare e non lascia traccia alcuna se non una labile eco di esplosioni e sparatorie.

Ciò che colpisce invece è, ancora una volta, la scarsa dote di fantasia che contraddistingue gli sceneggiatori hollywoodiani. Il dubbio era già venuto quando si era scritto della saga cinematografica dei pirati constatando le forti analogie (eufemismo) con i racconti di Arthur Conan Doyle, ma ora diventa certezza se rammentiamo quello che, forse, è il più grande romanzo di mercenari: I mastini della guerra di Frederick Forsyth.

Charles Alfred Thomas Shannon, detto Cat per via delle sue iniziali, è un mercenario reclutato da un magnate allo scopo di rovesciare il sanguinario governo di una piccola repubblica africana, lo Zangaro, dove un’impresa di rilevazioni minerarie ha scoperto un importante giacimento di platino. Gatto Shannon, al fine di perfezionare l’accordo, decide di compiere un sopralluogo nello Zangaro e vi si reca spacciandosi per un esperto di ornitologia. In aereo studia le varie specie di uccelli, studio che gli sarà molto utile più tardi quando verrà interrogato dagli uomini del dittatore.

I mastini della guerra è uno dei migliori libri di Frederick Forsyth, perché racconta il mondo dei mercenari impiegati nelle guerre d’Africa nella seconda metà del secolo scorso con dovizia di particolari, accenni a persone realmente esistite. Leggendo appare subito chiaro che dietro il libro c’è un’accurata ricerca sui fatti, sulle persone e sulle cose e nulla è lasciato al caso. Nella scrittura di oggi, invece, s’è persa l’attenzione al dettaglio, la fiction la fa da padrona, ma quando, come in questi casi, l’attenzione al dettaglio può essere motivo di vita o di morte esso non può essere tralasciato, neppure in un libro o nel plot cinematografico.

I mastini della guerra è anche un saggio di organizzazione, un manuale di set up di un’impresa, l’attacco al palazzo presidenziale dello Zangaro viene organizzato con professionalità maniacale mentre la sparatoria dura solo pochi terribili istanti.

Che differenza con i prodotti di oggi tutti azione e rumore!  A questa roba manca soprattutto il fascino.

Ho letto I mastini della guerra la prima di infinite volte nel 1972, quarant’anni fa. Regalo di compleanno della mia compagna di banco. Altri tempi e un altro mondo, certamente. Ma un bel ricordo ce l’ho e lo voglio condividere.

Nel 1989, tornando da un’isola africana ho dovuto pernottare a Libreville, un soggiorno imprevisto perché non era ancora atterrato l’aereo da Parigi. Il pulmino si è fermato davanti a un albergo poco lontano dall’aeroporto e quando ho visto l’insegna illuminata la mia mente si è accesa di ricordi, perché sull’insegna c’era scritto Hotel Gamba. Lo stesso albergo nel quale, all’inizio del romanzo, vengono ospitati i mercenari: Cat Shannon e il suo gruppo, separati dal resto degli ospiti, all’ultimo piano, per non dare nell’occhio e adito a indiscrezioni.

Quella notte, prima di dormire, ho fatto due passi all’esterno. L’ultimo piano dell’albergo era buio, sembrava deserto, fatta eccezione per due finestre, una aperta. A quel punto mi è sembrato di sentire fischiettare un motivo.

 Era il ritornello di una vecchia canzone: “Harlem spagnola”.

Folco Quilici. Relitti e tesori

Alcuni libri riescono ancora a farci sognare.

Spesso c’è di mezzo il mare, la sua forza, la sua capacità di nascondere e svelare, portandoci dritti dentro storie sconosciute o dimenticate, simulacri del passato e del presente immersi nelle profondità.

Il mare significa e racchiude una dimensione primigenia, regioni nascoste e per fortuna ancora, in larga parte, incontaminate nonostante gli sforzi scellerati dell’umana incoscienza tesi alla produzione del contrario, cioè alla contaminazione e alla distruzione. Questo universo mutevole, gentile e feroce al tempo stesso, nasconde anche le nostre vestigia e i relitti delle navi di ogni tempo, dall’epoca dei Fenici ad oggi. Custodisce ricoprendo di vita, come solo la natura può fare, modificando definitivamente il valore d’uso degli oggetti, trasformando navi e aerei in abitazioni per la flora e la fauna sottomarina.

La capacità del mare di lavorare le cose: sassi, tronchi, vetri, creando forme d’arte è ben nota e in essa ritroviamo intatta l’essenza stessa dell’autentico, la verità senza il bisogno della ricerca, perché automaticamente in sé e per sé. L’inutilità della ricerca rilancia l’immagine del sentiero interrotto (Holzwege Heideggeriano) che in questo caso, però, non si annulla tra la vegetazione ma semplicemente si scioglie nell’acqua come un fiume che si stempera nel mare.

La ricerca, fisica e intangibile, per meglio dire intellettuale, fa parte del ciclo di vita dell’uomo e se non è diretta alla conoscenza quella fisica, concreta, è orientata all’utilità prima ancora che all’esperienza.

Folco Quilici fa parte di una fortunata generazione di esploratori sottomarini che ha letteralmente scoperto il mare immergendosi nelle sue profondità, cominciando con le prime maschere, i primi autorespiratori ad aria e a ossigeno, le prime pinne piccole e di gomma dura. A tutti gli effetti un pioniere come certifica la sua appartenenza al mitico equipaggio del Formica e il film Sesto Continente prodotto con Bruno Vailati. Successivamente si è dedicato alla divulgazione attraverso libri e trasmissioni televisive divenendo un punto di riferimento per gli appassionati così come è accaduto in Francia per Jacques Cousteau.

“Relitti e tesori” racconta di navi antiche e moderne, tesori del passato e dei nostri tempi ed è ricco di aneddoti e curiosità portando il lettore a scoprire come venivano costruite le navi di una volta, le navi legate, i luoghi dove era ed è più facile fare naufragio, dalla secca di Filicudi alle coste della Spagna, all’estuario del Rio della Plata. E i tesori dell’antichità: i bronzi di Riace, il Satiro danzante. I tesori dei pirati, l’oro dello Zar.

Una lettura lieve ma al tempo stesso profonda, come le navi sommerse che racconta, e fa venir voglia di cercare un vecchio libro su pirati e naufragi e partire alla ricerca del tesoro, non tanto per trovarlo ma soprattutto per sentirsi liberi e poter, ancora una volta, giocare di fantasia.

Ad esempio, camminare sulla costa dell’Isla de Coco dove “la riva è disegnata da un arco di ghiaia disseminata da scogli e iscrizioni a volte incerte, a volte precise: date e nomi di navi o di marinai qui giunti.”

Isla de Coco, proprio “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson.

 

Steven Johnson. Tutto quello che fa male ti fa bene

“Questo libro è un lavoro di persuasione vecchio stile, che in ultima istanza mira a convincervi di una cosa: la cultura di massa negli ultimi trent’anni è diventata, in media, più complessa e intellettualmente impegnativa”.

Steven Johnson studioso di neuro scienza, giornalista e scrittore, dopo il successo del suo libro “La nuova scienza dei sistemi emergenti” si è dato il difficile compito di spiegarci e, conseguentemente, convincerci del fatto che la dimensione multimediale non solo non ottunde le nostre capacità mentali ma al contrario le potenzia e le sviluppa.

Per sostenere, anche empiricamente, la sua tesi fa riferimento a una ricerca avviata negli anni settanta dal filosofo americano James Flynn allo scopo di confutare una ricerca precedente che aveva indicato una presunta diversità tra i QI (quozienti di intelligenza) di campioni di popolazione bianca rispetto ad altri di popolazione nera, quello che Flynn scopre è che il QI di tutta la popolazione americana è aumentato con un tasso di crescita accentuato soprattutto negli ultimi decenni.

Questo incremento, l’effetto Flynn, non sembra derivare né dall’indubbio miglioramento dell’alimentazione né dall’istruzione. Ma se i cambiamenti cognitivi non sono generati da questi fattori, da dove hanno origine? Dalla complessità ambientale, come sostiene la psicologa sociale Carmi Schooler, dagli stimoli che l’ambiente moderno offre,  dalle decisioni che dobbiamo prendere, dalla incertezza delle conseguenze,  tutti elementi che aumentano notevolmente il nostro sforzo cognitivo.

Johnson compie un accurato percorso di analisi dei principali media, dai video giochi a Internet, allo scopo di dimostrare quanto sia aumentata negli ultimi anni la complessità di gestione di strumenti interattivi come i videogiochi,  come siano diventate più complicate le strutture narrative delle serie di maggior ascolto e come sia pro attivo l’approccio ai personal computer collegati in rete.

Le istruzioni di un videogioco sono parte del gioco, nel senso che è praticamente impossibile farle proprie senza una sperimentazione attiva del gioco stesso consistente in serie reiterate di tentativi atti a risolvere altrettanti enigmi. Questo significa che durante il gioco gli obiettivi, i target, da raggiungere sono molteplici, dando luogo a un lavoro mentale che non è paragonabile al “multitasking” (capacità di svolgere più compiti contemporaneamente), perché il multitasking significa poter gestire attività diverse tra loro, indipendenti, che cerchiamo di rendere temporalmente interdipendenti.

In questo caso invece dobbiamo ordinare, mettere insieme e costruire una gerarchia tra attività che sono parte dello stesso processo, quindi costruire sequenze esatte, disegnare relazioni e individuare effettive priorità. Johnson definisce questa capacità “telescoping”, capacità di creare legami telescopici, gestire obiettivi che si nascondono l’uno dentro l’altro. Un processo cognitivo che ritroviamo pari pari anche nel modus operandi dell’indagine e della ricerca scientifica.

Anche la struttura narrativa delle serie Tv è diventata più complessa con il passare degli anni, alle strutture narrative lineari sono succedute strutture narrative caratterizzate da elementi stocastici, molte storie nella storia principale, e solo alcune si concludono effettivamente nel corso della puntata, oppure eventi che accadono indipendentemente dalle cause e con cause che accompagnano gli eventi. La struttura narrativa di “Hill steet giorno e notte” è certamente più ricca e articolata di “Starsky e Hutch”, per non parlare dei “Sopranos”, l’attuale serie di successo in cui talvolta è persino difficile capire perché Tony Soprano ha dovuto prendere questa o quella decisione.

Steve Jobs usava sottolineare la differenza tra Televisione e Internet sostenendo che se la prima ci fa inclinare indietro, rilassare, l’uso di Internet ci fa inclinare in avanti, concentrare, impegnare. A questa modalità di approccio, che rovescia il concetto Adorniano di fruizione passiva dei media (relax and take it easy), vanno aggiunti l’esplosione della possibilità di ricerca tramite i motori, Google in primis, e l’allargamento della dimensione sociale, il rapporto con gli altri, fattori che incrementano le nostre capacità personali di knowledge, problem solving e relationship. “Dopo cinquant’anni di isolamento sociale stiamo imparando nuovi modi di comunicare”.

La tendenza a lungo termine della cultura di massa spinge verso forme di complessità maggiore e il nostro cervello agisce di conseguenza. Sono quindi da confutare le teorie diffuse e fatte proprie dal senso comune che  l’uso dei videogiochi, la fruizione delle serie televisive, l’uso di Facebook e You Tube portino a una atrofizzazione delle capacità mentali, al contrario l’uso e la fruizione dei media stanno aumentando il livello delle nostre capacità cognitive.

Una cosa è certa, la cultura tradizionale, lo studio, la lettura e anche il lavoro erano indissolubilmente connessi alla solida concezione del dovere, una visione del mondo in cui dovere e utilità sono sempre stati considerati capisaldi al servizio dello sviluppo della condizione umana.

Oggi questo pregiudizio consolidato è insediato dalla dirompente ricerca del piacere, piacere e gratificazione individuale/collettiva stanno diventando la molla del fare, anche a prescindere dall’utilità implicita.

E l’obiettivo del piacere è certamente una delle più potenti fonti di energia.

Su questo piano è davvero difficile non essere d’accordo con le tesi di Steven Johnson.