Riapriamo le nostre porte all’irrequietezza del mare, viaggiando con lo sguardo fin dove possiamo, attraverso le diverse tonalità di azzurro, respinti solo dal muro notturno e insuperabile della profondità.
Andiamo laggiù in compagnia di Philip Hoare, scrittore inglese, che in “Leviatano ovvero la balena”, racconta infinite storie, alcune personali, altre di scrittori e gente di mare, comunque tutte contraddistinte da un fattore comune: l’immagine della balena.
Il leviatano biblico è un mostro voluto da Dio e partorito dal Caos, un incrocio di forze antiche, la rappresentazione di una grandezza mescolata con l’innocente ferocia dell’animalità, quindi la sintesi perfetta tra il bene e il male.
Così nel libro, sin dalle prime pagine, dapprima sotto le forme amichevoli e tristemente sorridenti di un beluga, colto attraverso un oblò dell’acquario di Coney Island, appare l’ombra inquietante di Moby Dick. Il dorso della balena bianca emerge ripetutamente tra le pagine del libro e ogni volta che accade pare di udire l’urlo dell’uomo di vedetta in coffa: “laggiù soffia!!!” e di afferrare, negli sguardi dell’equipaggio del Pequod, la stessa impazienza del mare, mentre alla base dell’albero maestro brilla il doblone d’oro dell’Equador, incastonato dal capitano Achab.
“Per Ismaele il bianco è il colore tanto del bene quanto del male. E’ un’assenza che intimorisce: ne sono riprova l’orso bianco polare e il pescecane bianco dei tropici: che cosa se non la loro levigata e fioccosa bianchezza li rende quei supremi orrori che essi sono?”
E’ il bianco a intimorire e preoccupare, in occidente il colore della festa e della pura innocenza, mentre in oriente talvolta allude alla morte e ai fantasmi, un vestito candido calato sulla pelle di animali di grande forza e ferocia.
“La bianchezza, però è anche un invito, un vuoto da colmare”.
Hoare scrive di un tempo in cui esistevano ancora terre sconosciute alle carte geografiche e il vuoto, l’assenza, spesso venivano coperti dall’immaginazione e dalle fantasie degli uomini. Il dente del narvalo poteva diventare un corno di unicorno di mare, una sorta di cavallo alato avvezzo alle acque marine, e essere persino donato alla regina Elisabetta e la possente balena della Groenlandia, invece, scomparire nell’oscurità polare come un piccolo pesce.
Il bianco vuoto della conoscenza viene colmato dall’opera di Hermann Melville e dalla sua esperienza di vita. Le suggestioni contenute in Gordon Pym di Edgar Allan Poe, quei racconti di terre misteriose popolate da indigeni che considerano il bianco come un colore tabù e l’immagine del gigante bianco incontrato ai confini del mondo dai protagonisti del libro di Poe, restano ancorate nella mente di Melville durante i suoi viaggi per mare, anticipando motivi poi rinvenibili nella stesura di Moby Dick.
“Melville salì sull’Acushnet a New Bedford domenica 3 gennaio 1841”. “L’Acushnet era fresca di cantiere”. “L’Acushnet forte di chiglia e alta di vela, era lunga circa 31 metri, larga otto e alta quattro”. La baleniera su cui Melville si imbarca aveva preso il nome del fiume su cui era stata varata, da quel momento inizia un lungo viaggio alla caccia e alla scoperta delle balene.
Le storie si confondono e si intrecciano: Ismaele è Hermann, Hermann è Ismaele e talvolta anche Hoare entra nel racconto aggiungendo esperienze personali, annotando digressioni e riportando assonanze di grandi autori come H.D. Thoureau, N. Hawthorne, D. Defoe e persino Ray Bradbury.
“Il libro di Melville colse i critici alla sprovvista lasciandoli confusi e sbalorditi. Che cos’era? un romanzo gotico’? Una parabola politica? Un opuscolo religioso? Se la lunga caccia e la battaglia finale tra Achab e la Balena Bianca regalò a qualche lettore profondi fremiti di emozione (…) molti altri ne restarono invece frastornati, se non irritati”.
Il libro pubblicato a Londra, con il titolo “La balena”, e in contemporanea negli Stati Uniti vendette pochissime copie. Melville era uno scrittore che non poteva vivere come uno scrittore, l’esperienza dei suoi lunghi viaggi per mare ne aveva fatto un marinaio, un esploratore alla perenne ricerca di un vuoto da annullare e da riempire. Non era certo abituato a frequentare i salotti letterari o luoghi simili ove tessere quelle relazioni che spesso sono necessarie per avere successo.
Era un artista solitario, un marinaio dell’arte.
“Nel 1863 Melville disse addio alle velleità agresti di Arrowhead e tornò a vivere a New York, in una casa a Gramercy Park. Da questo domicilio scendeva a piedi fino alla Battery, dove guadagnava quattro dollari al giorno come vice-ispettore numero 75 della dogana, come se il suo impiego fosse un’altra isola”.
Dobbiamo essere grati a Philip Hoare per questo racconto e anche per il ritratto di un marinaio dell’arte di nome Hermann Melville, ripreso ogni giorno mentre va a prestare la sua opera alla dogana.
Quando, infine, il grande scrittore muore d’infarto, all’interno dello scrittoio su cui lavorava viene rivenuto un biglietto, sopra è scritto soltanto:
“Resta fedele ai sogni della tua giovinezza”.