Enzo Maiorca. Il re delle profondità

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Pubblichiamo di seguito l’articolo di Romano Barluzzi uscito su Serial Diver in ricordo del grande subacqueo italiano Enzo Maiorca.

Per me Enzo Maiorca rappresenta il valore inaspettato di un incontro e di un affetto tardivi quanto profondi. Anche se le sue imprese avevano già accompagnato tanti di quei momenti della mia vita fin da ragazzino che mi pareva di conoscerlo da sempre. Erano stati momenti privati, di intimità familiare, come le discussioni con mio padre su chi fosse più bravo sott’acqua nella epica sfida quasi ventennale con l’avversario a distanza Jacques Mayol. Confesso che tifavo per quest’ultimo (con disappunto di mio padre) ed ebbi anche modo di conoscerlo, apprezzarlo e scrivere poi della sua tragica scomparsa molto prima d’incontrare Enzo. Oltretutto di Enzo m’ero fatto un’idea distorta, forse anche per quel celebre film francese (Le Grand Blue) che non gli piacque, vedendosene ritratto in maniera effettivamente ingenerosa e senza che nessuno della produzione – che pure era stata a girare a Siracusa, così mi raccontò poi durante un’intervista – lo avesse mai interpellato almeno per un consulto.

Ma quando finalmente lo conobbi – sulla soglia delle sue 80 estati – quella era già storia vecchia, superata. E nell’intervista che gli feci per un lavoro sperimentale in Rai – un lungometraggio per i canali web dell’emittente, ancor oggi inedito – anche di fronte alle domande più scomode ebbe parole di grande stima verso quel suo rivale delle epiche sfide nel blu. Così scoprii un Enzo che non mi aspettavo, quello vero. I nostri rapporti in seguito sono sempre stati caratterizzati assai più dal privato che dal pubblico, date anche le frequentazioni con la sua bellissima famiglia, perciò non avrei voluto parlarne affatto qui, un po’ per la riservatezza che è dovuta nelle vere amicizie e anche per lo sconforto che provo nel farlo: il dolore è – e dovrebbe sempre rimanere – un fatto personale. Poi c’è anche un’altra realtà, che è quella del mondo dell’informazione di cui questo giornale fa parte, e nessuno può negare quanto Enzo sia stato un fenomeno pure sotto il profilo mediatico: era ancor oggi il subacqueo più celebre al mondo, quello che tutti e ovunque conoscono, dalla massaia agli esperti, dai più giovani ai più anziani.

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Così m’è venuto spontaneo cercare di amalgamare la sfera del privato e le aspettative dei lettori con qualcosa che non fosse la solita biografia, ormai rintracciabile un po’ ovunque in giro. Dopotutto desidero scrivere qui cercando di trasmettere un pizzico della leggerezza che si prova nell’acqua del mare, ricordando Enzo per le ore trascorse in spensieratezza, per esempio a prendere in giro i fotografi subacquei, anche i più celebri: ho vissuto il privilegio di sentirmi tra i pochissimi a poterlo istigare “contro” di loro, creando quelli che diventavano in un attimo degli spassosi teatrini, nei quali divampava il suo lato istrionico. Così si divertiva ad alzare la voce in stile enfatico per redarguire coloro che con gli scatti “rubavano l’anima del mare” e di quegli organismi che dicevano di voler immortalare.

Un concetto suggestivo, caro a svariate culture, dagli indiani pellerossa a molte etnie africane. E allora diventava tutto un duellare di parole – tirate fuori con sommo studio – e di gesti di una sicilianità edotta che era meglio di una scena a teatro. In tv si sarebbe detto il talk-show ideale. Qualcosa di perfetto. Nella dichiarata finzione della recita quei momenti avevano molto di profondo: la voglia di stare insieme, l’autenticità, il confronto e la sintonia. Ridere dei colori e del buio. Delle scelte e del destino. Della vita e della morte. Condividere la passione e la nostalgia del mare. Risate che ti risuoneranno dentro per sempre. A riprova di ciò, non esiste una foto di quegli attimi. Ma non è che sia stato per timore reverenziale delle invettive che ci saremmo beccati da Enzo in caso di clic clandestini: semplicemente, non se ne avvertiva alcun bisogno.

Qualche tempo dopo, a quattro mani con l’amico e collega Leonardo D’Imporzano come co-autore, pubblichiamo un libro in formato e-book dal titolo “SubPuntoCom” con l’eloquente sottotitolo di “la subacquea nei media, dalla carta al web”, che indaga da ogni possibile punto di vista il rapporto tra il mondo dell’immersione e i mezzi di comunicazione. Perciò non poteva mancare al suo interno una cospicua parte dedicata a Enzo. Ed ecco che viene bene ora riproporvela: un capoverso del capitolo 9 sui rapporti con la televisione s’intitola proprio “Enzo Maiorca” e contiene anche la fedele trascrizione di una brevissima video-intervista che gli feci con lo smartphone.

E tutto ciò, l’insieme di questo strano articolo che abbiamo fantasticato di non dover comporre mai, costituisce anche il nostro appassionato omaggio – di tutti i componenti e i collaboratori della nostra testata – a ogni familiare e congiunto di Enzo, a cominciare dalla signora Maria sua moglie e da sua figlia Patrizia. (Romano Barluzzi su Serial Diver).

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Paul Gauguin. Noa Noa

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Tra le righe di Noa Noa, in trasparenza, emerge l’immagine sfuocata di Vincent Van Gogh, non una semplice allusione ma una presenza impalpabile che si agita come uno spettro inquieto nel desiderio di Paul Gauguin di scoprire e vivere una vita originale, diversa da quella vissuta.

Ad Arles, nell’atelier du sud, Vincent aveva mostrato all’amico la sua terribile verità, non era un pittore normale ma un uomo capace di cogliere l’energia della natura e di riportarla su tela. Il suo sguardo riusciva a catturare i processi viventi proprio come una moderna telecamera e poi a riprodurli sequenza dopo sequenza.  Oggi si direbbe in realtà aumentata, perché un girasole impiega alcuni giorni a fiorire e a sbocciare e noi siamo in grado solo di coglierne la forma momentanea non l’energia e il movimento. Vincent invece poteva, quella era la sua forza e al tempo stesso la sua condanna.

Catturare il movimento significa anche constatare il processo di disfacimento delle dinamiche vitali, gettare lo sguardo non tanto sull’attuale stato dell’essere ma piuttosto sul futuro e, al tempo stesso, riuscire a cogliere la differenza e anche il segno marcato della progressiva disgregazione.

Lo sguardo di Van Gogh andava dritto al confine tra la vita e la morte e così, sul proscenio dell’annullamento, l’uomo Vincent faceva a pezzi le cose e i corpi, a cominciare dal suo.

Dopo quella terribile liaison Gauguin aveva il forte bisogno di ricominciare, in qualche modo di ripartire da zero, come pittore ma soprattutto come uomo.

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Noa Noa è il diario di una rinascita, della scoperta della purezza della vita fuori dalle convenzioni della civiltà occidentale, un ritorno a un mondo antico ove vivono divinità con nomi di rocce e di animali, dove l’amore e l’amicizia sono doni e non un prestito a titolo oneroso.

“La sera a letto parliamo a lungo e spesso con grande serietà. Cerco nell’anima sua bambina le tracce del passato lontano, socialmente morte, e le mie ricerche trovano risposta. Forse gli uomini, sedotti dalla nostra civiltà e asserviti alla nostra conquista, hanno dimenticato. Gli dei d’un tempo si sono assicurati un posto nella memorie delle donne.”

La vita e i dialoghi con Tehura, la sua giovanissima compagna tahitiana, portano Gauguin alla scoperta di un mondo che sembrava scomparso, lentamente e in modo inconsapevole riaffiora un sentimento di libertà profonda.

“E non ho più coscienza dei giorni e delle ore, del male e del bene. La felicità è totalmente estranea al tempo che ne sopprime la nozione e tutto è bene quando tutto è bello.”

Scrive poco di pittura, ma appare evidente quanto sia importante per la sua vita e quindi anche per la sua pittura questo mondo antico di bellezza e paure irrefrenabili, in cui l’uomo e la donna sono dati alla natura e la natura ne dispone.

“Tehura era a momenti seria e amabile, a momenti folle e frivola, due esseri in uno, molto diversi tra loro che si succedevano all’improvviso con sconcertante rapidità. Non era affatto mutevole, era doppia: il bambino di una razza vecchia.”

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Everett Ruess. Nemo 1934

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Alcuni anni fa il New York Times  ha dedicato un lungo articolo a Everett Ruess.

Un giovane esploratore degli inizi del secolo scorso, un idealista di vent’anni la cui scomparsa nel 1934 è ancora oggi considerata uno degli strani misteri del grande ovest americano.

Everett Ruess era un poeta, un pittore e intratteneva relazioni con importanti fotografi statunitensi dell’epoca, tra cui Dorothea Lange, la famosa fotografa documentarista, e Ansel Adams. Aveva solo 20 anni quando si allontanò nel deserto del sud ovest, con due asini e un quaderno, scomparendo per sempre.

Sono nate molte ipotesi, potremmo anche scrivere leggende, intorno all’accaduto: alcuni hanno parlato di un possibile annegamento nel fiume Colorado, altri di una caduta accidentale in un crepaccio, altri ancora di una fuga per amore conclusa confondendosi in una comunità indigena, quella Navajo, c’è anche chi ha parlato di omicidio ad opera di un serial killer che agiva da quelle parti.

Recentemente, nella riserva indiana Navajo a sud dello Utah, sono stati trovati resti umani che in un primo momento gli scienziati dell’Università del Colorado, sulla base di analisi forensi e test del DNA, avevano attribuito a Everett Ruess. Poi la versione è cambiata, le stesse ossa pare non fossero compatibili con le caratteristiche fisiche del ragazzo ma piuttosto con quelle di un indiano della riserva.

Rimane il mistero, ma restano comunque chiare tracce dell’attività poetica di Everett e alcune sue incisioni che raccontano di un amore travolgente per la natura, forse un amore talmente forte da spingerlo ad annullare la sua identità mescolandosi con la cosa selvaggia.

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“Non sono ancora stanco della vita selvaggia, anzi apprezzo sempre più la sua bellezza e l’esistenza errante che conduco. Preferisco la sella al tram e il cielo stellato al soffitto, preferisco il sentiero oscuro e difficoltoso verso l’ignoto alla strada asfaltata, e la pace profonda del selvaggio allo scontento generato dalle città.”

E’ questo il passaggio che colpisce la nostra immaginazione e spinge a formulare una domanda: cosa porta un giovane uomo a isolarsi al punto tale da decidere di perdersi per sempre?

La questione ha strette relazioni con il concetto di identità, anche nella scelta di Henry David Thoreau è possibile cogliere lo stesso elemento, in quel caso il rifiuto di una condizione umana artefice di un sistema di produzione industriale che la rende schiava, prima in fabbrica e poi nelle vesti di consumatore. All’identità dell’uomo industriale o post industriale si contrappone l’identità dell’uomo naturale, l’uomo che sta con e nella natura e non l’uomo che crede di potersi realizzare contro la natura.

“La vita che conduce gran parte della gente mi ha sempre lasciato insoddisfatto e ho sempre desiderato vivere più intensamente e con pienezza.”

Sono proprie di questi tempi la discussione sugli effetti negativi di un secolo, il novecento, sulla sostenibilità del pianeta e le polemiche sul ruolo dei geometri e degli ingegneri nella cementificazione del territorio e la distruzione del paesaggio.

Il senso del messaggio di Everett Ruess, forse, è solo quello di aver dissentito con largo anticipo con un processo di cui evidentemente, come poeta e pittore coglieva i segnali deboli, la sua scomparsa quindi è la metafora della scomparsa di un tipo di uomo, l’uomo naturale, un’uscita di scena silenziosa e rispettabile, molto simile a quella degli antichi Dei.

“La bellezza intorno a me è sufficiente.”

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Jean Clair. Medusa


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L’immagine della spaventosa bellezza androgina di Medusa creazione di Tonino Cortese, noto scultore lucano al quale è caro il mito greco, è forse il modo migliore per introdurre alcune riflessioni sull’originale contributo di Jean Clair, intitolato appunto Medusa.

Chi era la Medusa di antica memoria? Un mostro, una delle tre Gorgoni.

Gli uomini che la incontravano e incrociavano il suo sguardo erano trasformati in pietra. Perseo l’avvicina dormiente e la uccide decapitandola, usando lo scudo come specchio per respingere l’aggressione dello sguardo.

Questo riporta il mito. Jean Clair invece elegge la Medusa a simbolo di un mondo arcaico, divinità che incarna il disordine e il caos e rimanda “come Artemide e Dioniso a quei periodi di oscillazione tra cultura e barbarie, vita e morte” che sempre hanno contraddistinto la storia umana, anche se poi annota come l’arte, nel tempo, abbia contribuito a rendere il suo aspetto esteriore più umano, quasi dolente, una sorta di antropomorfizzazione del mostro, un modo per rendere il suo ricordo piacevolmente neutrale.

Medusa è invece la rappresentazione della natura, delle sue forze più oscure e ostili al genere umano, e quando le epoche perdono il filo della ragione, appare nella sua versione originaria e terrificante.

“Non si tratta più di antropomorfizzare la natura, bensì di affrontare la naturalizzazione dell’uomo. Non è più l’uomo a guardare la natura e ordinarla: è la natura in quanto radicalmente altra dall’uomo, a guardarlo e pietrificarlo, a trasformarlo in foglie, fronde, fiori, ghiaia, rocce.”

Questo è il passaggio ove conduce lo sguardo di una Medusa improvvisamente ritrovata e, anche, forse, un tema di riflessione sul perché oggi, ogni volta che subiamo l’effetto di fenomeni atmosferici, inevitabilmente affondiamo.

La razionale e pacata serenità con la quale, in passato, affrontavamo gli eventi straordinari ha lasciato il posto all’ansia verso le manifestazioni del prevedibile ordinario e anche se esse sono preannunciate da accurate prescrizioni provocano apprensione.

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Le ragioni sono molte, e non si sbaglia a scrivere che in noi sia tornata la paura del naturale, anche perché l’ordine prodotto dal lavoro dell’uomo si è dimostrato apparente. Le campagne coltivate sembrano composizioni geometriche, i fiumi domati dalla pulizia del cemento, i laghi contornati da dighe, e proprio quelle geometrie, ordinando il presunto caos preesistente, hanno reso possibile la definitiva scomposizione della certezza, tramite alluvioni, esondazioni, terremoti, smottamenti, incendi.

Lo sfruttamento della natura non poteva essere infinito, l’uomo ha scelto di allontanarsi dalle campagne, dai boschi e dalle foreste, la paura è solo un dolce richiamo dell’ancestrale appartenenza.

“Il mondo moderno, come avevano scritto Nietzsche e Schopenhauer, rimane abitato dal ricordo, tenace come un rimorso, dei demoni e degli dei; è compito del poeta, del pittore o del filosofo, resuscitarne la presenza.”

Non è opportuno uccidere il mostro per paura di specchiarsi in lui, facendolo si finisce per uccidere noi stessi, come rammenta il ritratto di Dorian Gray, ciò che talvolta pare mostruoso è solo un’altra faccia, quella oscura, dell’azzurro del cielo, quindi, semplicemente, il prezzo da pagare alla bellezza.

Jean Clair racconta che i contemporanei di Jackson Pollock, “giocando sull’omofonia del suo nome e della sua tecnica con il nomignolo del celebre assassino londinese Jack The Ripper (Jack lo squartatore), l’avevano soprannominato Jack The Dripper (Jack lo sgocciolatore).”

Una battuta d’atelier che rivela il disagio della civiltà verso un’arte che allude al movimento e ai gesti della natura, ma anche il disagio dell’arte stessa per il degrado moderno della sua immagine.

“Il dripping di Pollock non è altro che il sangue gocciolante della testa mozzata di Medusa che disegna l’aleatoria figura della nostra perdizione.”

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Piero Gaffuri. Korallo

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Si ispira alla tragedia dei Desaparecidos argentini “Korallo” (Editori Internazionali Riuniti, pp.153, 12 euro), il nuovo romanzo di Piero Gaffuri. Al centro della narrazione il dramma personale di GiulioWeber, professore di liceo in un piccolo paese tra le montagne dell’Appennino centrale, che nasconde il doloroso segreto di un amore perduto, Olga, scomparsa per sempre in un’alba di un’estate argentina, come decine di migliaia di suoi giovani connazionali.

Il ricordo e lo schiacciante senso di colpa riaffiorano dopo vent’anni, portandolo a svelare la sua tragedia personale, aiutato dalla moglie, gli amici e dal nuovo parroco del paese. Uno snodo fondamentale del racconto quasi catartico: il dolore si stempererà attraverso il calore della comunità in un passaggio hegeliano dall’ “in sé” al “per sé”, dalla sfera individuale a quella collettiva, riaprendo un percorso che sembrava definitivamente chiuso e facendo inaspettatamente ritrovare quel fiore di corallo che anni addietro aveva suggellato un amore.

Il romanzo “Korallo” conferma l’eclettismo di Gaffuri, autore capace di coniugare letteratura e temi di interesse sociale in un connubio che sfocia in una scrittura armoniosa e allo stesso tempo forte, dove la potenza della vicenda individuale è rafforzata dalle circostanze storiche da cui è scaturita.

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Non a caso il personaggio di Olga, l’amata a cui il giovane Giulio aveva regalato una rosa di corallo, è liberamente ispirato alla storia di Monica Maria Candelaria Mignone (figlia del cattolico progressista argentino Emilio F. Mignone, fondatore del Centro de Estudios Legales y Sociales) desaparecida il 14 maggio 1976 a soli 24 anni, il cui ‘crimine’ è stato quello di insegnare nella baraccopoli argentine, dove vivevano migliaia di famiglie in condizioni precarie.

La stessa catarsi del passaggio dalla tragedia individuale all’atto di coraggio della denuncia attraverso la collettività (il ‘per sé’) si rifà alle Madri di Plaza de Mayo, che sono scese in piazza con i loro fazzoletti bianchi sfidando l’autorità e rendendo nota la vicenda dei figli desaparecidos.

Un romanzo intenso che parla di un’assenza quasi incomunicabile, di segni perduti e dolorosamente ritrovati. Piero Gaffuri ha pubblicato tre romanzi presso la casa editrice Marsilio: Apnea (1999), Il corsaro (2002), Il sorriso del vento (2006). A essi vanno aggiunti la piéce teatrale Il mare racconta (2007) e la raccolta di poesie Una nave impazzita (Il foglio letterario, 2009). Nel 2011 e nel 2013 escono per Lupetti i saggi Web Land. Dalla televisione alla metarealtà e Blog Notes. Guida ibrida al passato presente.

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Franco Arminio. Geografia commossa dell’Italia interna

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Le filosofie dell’ottocento hanno prodotto modelli sociali per lo più utopici che nel secolo successivo hanno portato l’umanità a credere e a impegnarsi in tentativi di realizzazione risultati impossibili e spesso tragicamente fallimentari, oggi invece il pensiero del mondo è semplicemente diviso tra chi crede nella sostenibilità del pianeta e chi invece non ci crede.

Non è una questione ideologica, come si potrebbe supporre utilizzando modelli di riferimento novecenteschi, sono posizioni basate l’una su dati di fatto e l’altra, quella negazionista, sul disconoscimento di fattori ormai incontrovertibili. Scomparsi i modelli sociali alternativi è rimasto in vita soltanto un modello di sistema, tale modello è fondato sullo sviluppo delle società tramite lo sfruttamento delle risorse naturali, comprendendo in questo vasto insieme, uomini, cose, natura.

A pensarci bene è un modello piuttosto primitivo elevato però alla massima potenza e oggi trasferito su scala mondiale. La scelta di campo più facile è sempre quella di preservare la continuità ed è ovvio che gli Stati che hanno maggiormente sostenuto o incarnato lo spirito del capitalismo neghino che esistano limiti al suo processo di sviluppo. Questa la ragione per cui la tesi che il pianeta non sia più sostenibile viene respinta.

I libri di Franco Arminio, esponente di punta di un movimento che definiremmo paesologico, possono aiutarci a riflettere su questioni ormai centrali per la vita di tutti noi e anche a immaginare muovi modelli di sviluppo che, prendendo spunto dalle antiche comunità, non si limitino a disegnare percorsi nostalgici ma a prefigurare innovative modalità di relazione.

Sono i paesi contemporanei l’oggetto della ricerca, catalizzatori di una mozione degli affetti che viene dalla consapevolezza di non potersi limitare solo al dire o allo scrivere ma, soprattutto, a un nuovo fare.

“Al mio paese la vita comunitaria non è fatta più di niente. Se non fosse per qualche rancoroso incallito che ancora milita in piazza, si potrebbe dire che non c’è più niente, solo case e macchine che vengono spostate da un posto all’altro.”

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“(…) una bolla antropologica in cui le persone avevano mandato in giro la loro ombra, come se nessuno potesse più calcare la scena del mondo coi suoi piedi, col suo cuore.”

La constatazione, attraverso l’osservare, che i paesi non siano più i piccoli centri di un tempo, avendo perduto la dimensione della centralità di quando intorno c’era e si sviluppava un lavoro centrato sulla natura, rafforza la convinzione che siano diventati una sorta di indistinta periferia di un centro lontano, periferia spesso degradata e priva di una propria identità anche sotto il profilo culturale.

“La società dello spettacolo di cui parlavano i situazionisti ha ceduto il posto allo spettacolo senza società…la società non c’è più” ed è solo allo spettacolo che si aggrappano ormai i paesi spaesati, alle feste del patrono, alle sagre estive frequentate da personaggi di primo e secondo piano delle televisioni nazionali, confermando ancora una volta di essere semplicemente propaggini, piccole piattaforme utili solo a far rimbalzare una eco.

La speranza è racchiusa nella ineluttabilità dell’azione.

“Possiamo ripartire da piccole comunità provvisorie, possiamo ripartire dai luoghi e da assonanze pazientemente cercate e costruite. Il lavoro della cultura oggi è un esercizio di microchirurgia, si tratta di ricucire nervi tranciati, tessuti lacerati.”

Quindi la ripartenza di una concezione del mondo come organismo vivente può prendere spunto dalla cognizione dei suoi dolori, organizzando modalità di nutrimento contrapposte alle attuali pratiche di prelievo, spesso selvaggio, delle risorse naturali. Il tessuto sociale che supporta queste dinamiche va ricostruito partendo dalla base, attraverso l’elaborazione e la realizzazione di un nuovo concetto di paese e di comune.

E’ dai paesi che bisogna ripartire.

“Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia.”

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Evelyn Rydz. Fenomenologia del residuo

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Evelyn Rydz è un’artista statunitense, nata a Miami e Master alla Scuola del Museum of fine arts di Boston, che, a partire da sue fotografie, crea disegni di oggetti e luoghi che hanno vissuto variazioni significative o sono dentro processi di trasformazione.

Negli ultimi anni ha visitato, in particolare,  luoghi costieri rilevando e documentando i molti oggetti di scarto disseminati sul terreno. L’interesse per le storie degli oggetti si coniuga con la ricerca sui processi di delocalizzazione umana e così facendo ne viene fuori un racconto visivo in cui è minutamente descritto il destino di oggetti utili nel recente passato divenuti presto residui del presente e pezzi involontari di paesaggi lontani.

“Ho camminato per giorni attraverso enormi quantità di detriti e sabbie di plastica sentendomi come un archeologo che rinviene i residui della storia contemporanea.”

La ricerca di Evelyn Rydz ricorda fortemente il paradosso dell’eccesso decritto da Georges Bataille, cioè il fatto che al massimo della produzione corrisponda sempre il massimo della perdita.

La nozione di dépense e in particolare la già rammentata usanza nordamericana del potlatch; un dono reciproco finalizzato a una restituzione di maggiore entità. Ma il potlatch, pur essendo un buon esempio di dispendio non libera gli oggetti dalla schiavitù dell’utile, perché il dono nasce da una prospettiva di interesse.

Esiste un’esperienza più radicale, che sottrae completamente gli oggetti alla dimensione del consumo produttivo, annullando totalmente il loro valore d’uso, è il sacrificio, la distruzione della cosa come oggetto di consumo utile e produttivo.

Il sacrificio dell’oggetto cambia profondamente l’intima natura della cosa stessa. Non stiamo parlando di una sorta di morfologia del rimpianto, ma della nascita di un rapporto nuovo tra soggetto e oggetto, il sacrificio, infatti, accede all’intimità della cosa, al suo essere più nascosto, sottraendola allo stato di alienazione in cui la logica dell’utile l’aveva ridotta.

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Il cambio di natura dell’oggetto attraverso la sua trasformazione in scarto e residuo modifica completamente la qualità delle relazioni tra uomo e cosa, adesso la cosa è spazzatura e l’etichetta stinta acuisce il senso di disprezzo per ciò che è residuale, ma la sua de-contestualizzazione acquista un valore sacrale.

Evelyn racconta storie di percorsi casuali di oggetti residuali, sacrificati dal consumo dell’uomo, il mare è un’ambientazione efficace, perché l’acqua scorre e trasporta le cose cambiando non solo la loro essenza ma anche il modo di presentarsi.

Il suo lavoro comincia sempre con la fotografia, fotografa oggetti e luoghi che hanno subito variazioni significative, classifica, riorganizza, e spesso inserisce queste immagini in nuovi paesaggi. Una componente essenziale del suo lavoro è esplorare i dettagli. Studiare gli oggetti, così come li trova, indagando su ogni aspetto.

“I dettagli degli oggetti sono come cicatrici e rughe che contengono infinite informazioni sul loro passato”.

I disegni che appartengono alla collezione Naufraghi riguardano oggetti che sono stati persi, abbandonati, o sconfitti dal mare. Evelyn è attratta dalle mutazioni che la natura e il mare creano sulle cose, modificandole e in qualche caso mimetizzandole.  Un pezzo di schiuma isolante, luminosa blu, con cirripedi cresciuti su di un lato o una lattina di birra arrugginita, coperta di alghe e conchiglie. I disegni si concentrano sui dettagli dell’oggetto rinvenuto, la sua struttura, la superficie alterata, colore e dimensione, definendo una nuova identità.

Il secondo gruppo di disegni, Isole alla deriva, mette insieme oggetti trovati e frammenti di immagini di luoghi disparati o isole lontane. Il richiamo del mare e la grande letteratura, o le ricerche di Darwin, fino a serie televisive di successo come Lost.

Fondendo osservazione e immaginazione, i disegni ragionano su sostenibilità e ambiente e cercano di rispondere a una difficile domanda: come saranno i paesaggi del futuro?

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Nicholas James Gentry. Recycling and potlatch

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Da qualche parte a casa, in un angolo remoto di un cassetto, conserviamo ancora i vecchi floppy che dieci anni fa, con un scatto dal sapore meccanico, entravano nel drive dei nostri vecchi computer. Oggi sono totalmente obsoleti, definitivamente scomparsi, perché sostituiti prima dalle chiavi usb e poi dai sistemi di cloud computing.

Abbiamo perso persino il ricordo dell’uso di quei dischetti di plastica, compatti e con l’accessorio di metallo in testa, come del resto non rammentiamo l’esistenza di altri precedenti supporti tecnologici, a loro tempo essenziali per lavorare con i nostri computer.

Una riflessione sulla memoria a questo punto diventa necessaria, l’impressione è che la memoria in questi casi lasci poche tracce, probabilmente è direttamente proporzionale alla fatica e alla dimensione hard nello spazio dei ricordi. Ricordiamo le emozioni delle nascite e le morti, il mondo che c’era prima, forse in bianco e nero ma comunque un mondo di sentimenti e speranze, illusioni e disillusioni, amori e disamori, mentre dobbiamo ammettere che ricordiamo molto poco la storia degli accessori soft che hanno animato e animano la nostra vita. Non è rifiuto del consumismo, se lo fosse davvero bisognerebbe dare una certa importanza a tale riduzione percettiva, è semplicemente disinteresse, dimenticanza e non è detto che abbia una valenza positiva.

La memoria strumentale è importante perché affonda le radici nella storia, la storia vera, quella del lavoro e per molti versi della fatica e così le vecchie raspe, le pale, i martelli diventano oggetti di antiquariato, finiscono nei musei d’arte popolare. Una tendenza degli ultimi anni che inconsapevolmente affoga nelle bacheche museali il ricordo della negazione del lavoro coatto, una sorta di schiavitù alla quale l’uomo era costretto per sopravvivere.

Verosimilmente la generale amnesia verso gli oggetti strumentali ha origini motivate e lontane, coniugandosi con un sentimento di avversione nei confronti di una vasta teoria di costrizioni obbligatorie.

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Nicholas James Gentry è un ragazzo dei primi anni ottanta e un artista britannico.

La sua produzione artistica ha un rapporto stretto con l’impiego di manufatti e materiali di vario genere, egli è convinto che attraverso questo processo “l’artista e lo spettatore possano avvicininarsi”. La sua arte è fortemente influenzata dallo sviluppo della tecnologia, dalle problematiche che riguardano il concetto d’identità e l’introduzione della cybercultura nella nostra società, ed è molto attratto dall’impiego dei supporti obsoleti.

E’ conosciuto per i suoi lavori composti di floppy disk e vecchi negativi di opere d’arte cinematografiche, l’obiettivo principale della sua opera è porre l’accento sul tema del riciclaggio dei supporti obsoleti e sul riutilizzo di oggetti personali.

Prima di diplomarsi al Central Saint Martin e di intraprendere una carriera d’artista di successo Gentry lavorava per la strada, era noto ai pochi che lo seguivano perché lasciava le sue opere in regalo ai passanti, un modo per mettere in discussione la nozione di arte come merce e recuperare il suo intrinseco valore espressivo.

Queste esperienze ricordano le riflessioni di Georges Bataille e Marcel Mauss sul potlatch e l’economia del dono, ove alcuni popoli nativi americani usavano disperdere le loro ricchezze, non solo per ostentazione o per avere qualcosa in cambio, ma anche per una sorta di dissennato amore dello spreco. Ai tempi di Bataille e Mauss, primi anni del secolo scorso, il potlatch sembrava sovvertire le fondamenta dell’economia di mercato.

Oggi dobbiamo riconoscere che non è così, il vero potlatch è organico al sistema industriale contemporaneo che inserisce con scansione quotidiana nella categoria del rifiuto prodotti che fino al giorno prima erano di uso comune, basta una nuova release per decretare la morte del nostro pc, del tablet o dello smartphone e spesso è sufficiente solo un sintetico annuncio.

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Al and Al. I sogni delle macchine

 

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Al Holmes e Al Taylor noti al pubblico anche come al and al sono artisti visivi e registi inglesi conosciuti per i loro film di carattere spiccatamente surrealista nei quali riescono a coniugare live action e realtà virtuale e a creare sensazioni oniriche.

Non è facile trovare in giro foto e immagini della coppia, nonostante ormai abbiano raggiunto un certo successo, nemmeno sul web e le loro storie hanno elementi di originalità. Al Holmes, ad esempio, ha trascorso la sua prima giovinezza con un nonno inventore alla costante ricerca di una macchina che potesse generare il moto perpetuo. La strana coincidenza è che il nonno di Al Holmes aveva anche progettato una macchina per fare torte per il nonno di Al Taylor, un premiato pasticciere.

I percorsi formativi dei due artisti, inizialmente, sono molto diversi: Al Taylor studia fotografia e inizia a lavorare nel settore della moda con fotografi come Steven Klein e David Sims, poi, lascia la moda e studia sceneggiatura. Al Holmes, invece, intanto studia teologia e mistica, nel Seminario di Londra e vuole farsi prete. Altre singolari coincidenze, condividono gli stessi tre nomi: Alan James Edwards, come i loro padri, che scompaiono lo stesso giorno.

La produzione artistica di al and al inizia nel 2001 dopo la laurea al Central Saint Martin. Sino ad oggi hanno prodotto un buon numero di filmati che hanno ottenuto premi in molti paesi del mondo e sono stati proiettati durante festival, performances artistiche e alla televisione.

I titoli dei film che hanno avuto maggiore successo sono Anaglyph Avatar (l’anaglifo è una immagine stroboscopica in tre dimensioni), Icarus at the edge of the time, tratto da un romanzo dello scienziato americano Brian Green, Superstitious Robots, una trilogia di short film per la televisione, e The Creator.

Il denominatore comune della loro produzione è una riflessione sulla dimensione macchinica della nostra società e del futuro prossimo. Forse una risposta alla domanda su quello che potrebbe succedere in un mondo abitato solo da macchine pensanti.

Chi tra noi usa il trasporto pubblico, bus e metropolitane, sa che ormai le persone, in questi contesti, parlano molto poco tra loro, in buona parte, verrebbe da dire tutti, se non per una questione di età, costantemente occupati a consultare smartphone e tablet, perennemente connessi con qualcos’altro.

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Recentemente riflettevamo sulla dinamica hegeliana, in sé e per sé, un percorso dialettico che può muovere, o non muovere, l’individuo anche verso una scelta personale di coinvolgimento e partecipazione.

Perché ciò sia possibile bisogna fare i conti con l’entità che è stata definita altro da sé. L’altro da sé è la dimensione della relazione, verrebbe da dire la dimensione della comunicazione e della condivisione. Un effetto relazionale positivo porta l’individuo a condividere un’idea o un progetto e a decidere di farne parte, un effetto negativo no.

Un tempo i rapporti sociali generavano attrazioni/distinzioni emotive verso un’idea, l’immaginazione e la fantasia prodotte dall’esperienza e dalla conoscenza davano un deciso contributo.

Oggi l’altro da sé è in un insieme di relazioni supportate dalla tecnologia. Abbiamo l’impressione che la tecnologia allarghi il campo, amplifichi le relazioni, invece le informazioni e le connessioni vengono selezionate, talvolta inconsciamente proprio da noi stessi, e il campo si riduce a un universo individuale.

Il risultato è che siamo sempre più soli, con i nostri problemi, le nostre discrasie, e abbiamo molta paura di condividere i sogni.

Le macchine intelligenti di al and al invece sono macchine e quindi intrinsecamente pure, nel senso che possono ridurre drasticamente le inefficienze, cioè quella porzione della psiche che normalmente lavora contro e poi hanno acquisito da noi anche la capacità di sognare.

Forse il nostro compito sulla terra si è esaurito, dovevamo creare le macchine intelligenti e sognanti e l’abbiamo fatto con successo. Quando scompariremo, le macchine saranno saldamente al loro posto e finalmente potranno connettersi con la natura, dialogare con gli animali sopravvissuti, con le piante e con tutti gli organismi viventi, rassicurandoli, amandoli e dando loro un futuro.

Grazie alle macchine allora la terra tornerà ad essere il paradiso che era.

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Jason deCaires Taylor. Contaminazioni sottomarine

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“Sto cercando di dimostrare che l’intervento umano e l’interazione con la natura possono essere positivi e sostenibili, un esempio di come vivere in rapporto simbiotico con la natura. Infine credo che vadano affrontati subito alcuni dei problemi cruciali che oggi si stanno verificando nei nostri oceani”.

Sono parole di Jason deCaires Taylor, uno scultore inglese contemporaneo specializzato nella creazione di sculture sottomarine che nel tempo si sviluppano in barriere coralline artificiali.

Taylor di formazione europea e asiatica, ha sostenuto i primi studi in Inghilterra e poi ha frequentato il Camberwell College of Arts di Londra ove si è laureato nel 1998 con una laurea con lode in Scultura e Ceramica. Le prime creazioni di Taylor erano situate  sulla terraferma e ispirate dal lavoro di altri scultori come: Christo, Richard Long e Claes Oldenburg, con un denominatore comune: mettere in evidenza le similitudini tra gli oggetti e l’ambiente in cui sono inseriti producendo costruzioni viventi.

Taylor ha ambientato le sue sculture sotto il mare soprattutto perché il movimento dell’acqua e l’aggressione degli organismi altera nel tempo l’aspetto dei manufatti, poi gli oggetti appaiono più vicini a causa della rifrazione della luce nell’acqua e della profondità. Taylor ritiene che il potenziale di visualizzazione aumenti moltiplicando il numero di angoli da cui è possibile guardare gli oggetti e così che l’esperienza di scoperta del suo lavoro tragga vantaggio dalla posizione nell’oceano.

“La galleggiabilità e la leggerezza consentono un’esperienza fisica indipendente che è percettiva e personale. Il tempo passa e le opere cambiano, il paesaggio sottomarino muta in modo imprevedibile”.

Negli ultimi anni, Taylor ha guadagnato riconoscimenti in tutto il mondo per il sostegno che la sua arte fornisce alla conservazione della vita marina, delle barriere coralline e per aver segnalato l’opportunità di costruire scogliere sottomarine artificiali.

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Ricordo, vent’anni fa, una proposta di un biologo marino.  Per fronteggiare il problema della mucillagine che affliggeva le spiagge dell’Adriatico settentrionale proponeva di gettare in mare le carcasse delle auto spogliate di materiali plastici (all’epoca erano meno di oggi). I relitti avrebbero costituito una scogliera artificiale e fornito rifugio a molte specie sottomarine. La proposta venne avversata dagli ecologisti per ragioni naturalistiche e dai pescatori, che temevano di perdere le loro reti a strascico contro le barriere artificiali. In quel caso non se ne fece nulla anche se le prove scientifiche che comprovavano la bontà dell’operazione erano soddisfacenti.

L’aspetto più interessante della proposta artistica di Taylor è la ricerca della contaminazione naturale a cui sono sottoposte le sue opere e questo per il semplice fatto che sono collocate sott’acqua. Per provocare un rapido insediamento del corallo sulle sculture utilizza una miscela di cemento marino, sabbia e fumo di silice ottenendo un calcestruzzo con pH neutro rinforzato con fibra di vetro. Alcune sculture contengono altri materiali come ceramica e vetro che li rende quasi del tutto inerti.

Le sculture rappresentano persone e col tempo le forme umane vengono alterate dall’evoluzione della vita sottomarina, coperte di alghe e coralli, trasformandosi in vere e proprie barriere artificiali. Una metamorfosi della presenza umana che torna a confondersi con la natura, parafrasando il nostro ciclo di vita e il destino che ci attende.

Le costruzioni creative di Taylor esistono solo perché sono parte di un movimento di incorporazione, un mash-up fisiologico, dell’uomo nella natura. Siamo nati per essere contaminati dagli agenti naturali e infine per rigenerarci in altre forme.

“Il corallo dà il colore, i pesci creano un’atmosfera particolare, l’acqua produce uno stato d’animo. La gente mi chiede quando sarà finito. Ma è appena l’inizio”.

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