Philippe Jaccottet. Arie

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“Dunque, cos’è il canto?

Solo una specie di sguardo (…).”

Così inizia la penultima breve poesia della raccolta “Arie” di Philippe Jaccottet.

Il riferimento è alla musicalità del canto, quindi anche alla sonorità della parola e poi un accenno agli effetti che lo sguardo ha su di noi, uno sguardo indagante e incantato, pronto a catturare associando, e legando tra loro, fenomeni colti all’esterno.

Nella bella prefazione al libro il poeta svizzero Fabio Pusterla cita Wallace Stevens, poeta anch’egli, rammentando queste sue parole: “E’ possibile che il mondo sia perduto per il poeta ma certamente non lo è per l’immaginazione. Parlo del poeta perché penso a lui come a un ambasciatore dell’immaginazione, e dico che egli ha perduto il mondo soprattutto perché i grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra.”

Per farlo, bisogna tornare indietro, ai colori selvaggi delle antefisse etrusche, alla musica popolare, alla religiosità implicita nelle danze dei Mamuthones e degli Issohadores sardi, all’allusione dionisiaca dei loro cortei e alla ricerca di un rapporto stretto, ancestrale, con la terra, con i suoi frutti e i suoi pericoli.

Non si tratta, infatti, di rappresentare, imitando, le manifestazioni naturali piuttosto di immaginarle e quindi di interpretare l’immaginazione, come hanno fatto Miró, Picabia, Picasso e molti altri, andando a indagare e poi a riprodurre sulle loro tele i frutti della terra immaginata, il portato immateriale di uno scavo radicale nelle profondità della materia.

“La terra totalmente visibile

misurabile

gravida di tempo

sospesa a una piuma che sale

sempre più luminosa”

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A Jaccottet manca la tela, la luminosità del colore viene semplicemente dalle parole, per questa ragione ha bisogno della musicalità del verso, musica istantanea racchiusa in una dimensione cartacea limitata nel tempo e nello spazio ma efficace come il canto di un uccello, breve, nitido, poco prima di spiccare il volo.

“Io sono l’Angelo necessario della terra, – scrive nella sua poesia “L’angelo necessario” Wallace Stevens e continua – chi vede me vede di nuovo 
la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
 caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto 
monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare 
in sillabe d’acqua; come un significato 
che si cerchi per ripetizioni, approssimando(…)”

Le brevi poesie di Jaccottet, appena simili a Haiku giapponesi, raccontano il ripetuto stupore al cospetto della natura e della terra: le pietre, le visioni, la neve e gli animali in fuga, appena distinguibili, tracce fresche o macerate dal vento e dalla pioggia, l’acqua e il fuoco.

E’ lo stupore nello sguardo dell’uomo che coglie immagini e movimenti, segni di presenze o di passaggi, e subito è portato a pensare, a tradurre lo stupore in abitudine, in un modo tranquillo di ascoltare cogliendo però le differenze e anche le ambiguità visive e musicali.

“Si direbbe che un dio si risvegli,

osserva fontane e serre

La sua rugiada sopra il nostro parlare

sopra il nostro sudore”

E’ l’alba,  ancora una volta e il grande poema della terra attende di essere completato, intanto,  Jaccottet sogna di “scrivere un poema che sia cristallino e vivo come un’opera musicale, puro incantamento.”

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Walt Withman. Foglie d’erba

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“La fruizione della bellezza non è fortuita…è inevitabile come la vita…è esatta e a piombo come la gravitazione”.

Sono parole del poeta americano Walter (Walt) Withman, tratte dalla sua unica grande opera: Foglie d’erba.  Withman ha lavorato a quest’opera tutta la vita ampliandola via via di nuovi contenuti e profonde suggestioni, è considerato il poeta della natura ma anche uno dei principali edificatori di una versione del sogno americano contraddistinta dalla ricerca continua di libertà, un prodotto diretto della terra, nutrito da una infinita necessità di amare.

La vita di Walt, le sue origini, sono americane, nasce all’inizio dell’ottocento, precisamente nel 1819, è il secondo di nove figli e il padre fa il taglialegna. Dopo una breve frequentazione della scuola pubblica comincia a lavorare molto presto, fa il tipografo e intanto continua a studiare da autodidatta avvicinandosi a autori come W. Scott, T. Carlye, W. Shakespeare, W. Goethe, Omero e Dante Alighieri.

Ma sono la natura e, in particolare, i pensieri sulla natura di Ralf Waldo Emerson ad attirare la sua attenzione e a costituire l’oggetto centrale della sua poetica.

“Io sono innamorato di quanto cresce all’aperto. Degli uomini che vivono tra il bestiame e sanno di oceano e di bosco. Dei costruttori e timonieri di navi, di chi maneggia asce e magli, guida cavalli. Potrei mangiare e dormire con loro una settimana dopo l’altra”.

La poetica di Withman è fluida e moderna, le sue sono modalità di espressione innovative e diverse dalle precedenti, anche da quelle del tempo, il racconto è ininterrotto e ha un andamento quasi lavico comunque onnicomprensivo, aperto e senza limiti narrativi.

E’ poesia scritta per essere declamata all’istante davanti a un pubblico, è poesia da ascoltare in diretta nelle vicinanze di una foresta, su una spiaggia contro la burrasca delle onde, sono testi che uniscono e possono dividere.

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“Io sono colui che attesta affinità; dovrei elencare le cose nella casa ed omettere la casa che le sostiene? Io sono il poeta del senso comune e del dimostrabile e dell’immortalità; E non il poeta della bontà soltanto…io non rifiuto di essere pure il poeta della cattiveria”.

E’ anche il poeta della trasgressione, di uomini che dormono vicini, mano nella mano, di donne che, nel sonno, accarezzano l’amante, una poetica libera che ha nutrito le generazioni successive, nella forma e nella sostanza, da Ezra Pound a William Carlos Williams, a Robert Frost fino a Big Sur: a Allen Ginsberg e ai poeti della beat generation.

“Di fretta con la folla moderna, bramoso e volubile come chiunque, Focoso verso uno che odio, pronto nella mia follia ad accoltellarlo; Solitario a mezzanotte nel mio cortile, i miei pensieri partitisi da un pezzo, Camminando le antiche colline di Giudea col bel dio gentile al mio fianco”.

I versi di Withman richiamano la necessità di una fusione universale, gli opposti non esistono, almeno come elementi singolari, non esiste il sopra e il sotto, il basso e l’alto, fuori e dentro, c’è piuttosto solo un grande spazio pieno e vuoto, al tempo stesso, che unisce tutte le cose, le costringe a vivere insieme alimentandosi delle contraddizioni, degli opposti, proponendo e negando.

Walt, nato in un sobborgo dell’isola a forma di pesce, viaggiatore delle strade d’America, pensava giustamente che la sua fosse poesia anticonformista, che poteva mettere in dubbio le idee della gente media, e quindi temendo di non trovare un editore disposto a pubblicare “Foglie d’erba” fece ricorso alla sua esperienza di tipografo, così nel 1855 stampò per suo conto la prima edizione di Leaves of Grass, con dodici poesie senza titolo e una prefazione. Iniziò a vendere il libro di persona, girando e declamando come un narratore di strada e un poeta ambulante.

Presto ricevette il plauso di Emerson e più tardi la censura del procuratore di Boston alla sua settima edizione.

Ma ormai non era più possibile fermare Walt, così come è impossibile per gli uomini comprendere e arrestare le espressioni più genuine dell’universo naturale.

“Io pure oltrepasso la notte; Resto via un poco O notte, ma ritorno da te di nuovo e ti amo; Perché dovrei temere di affidarmi a te? Non ho timore…sono stato ben iniziato da te; Amo il ricco scorrere del giorno, ma non diserto colei in cui tanto a lungo giacqui; Non so come da te provenni, e non so dove da te vada…ma so che ben provenni e bene andrò”.

Edward Weston - Leaves of Grass

La scomparsa della poesia

Aedo che canta le gesta degli Dei

C’è un legame profondo tra poesia e musica, perché sono nate insieme, appartengono ai prodromi della tradizione orale quando i racconti mitologici e le storie delle imprese degli eroi venivano narrati accompagnando i versi degli aedi con il suono degli strumenti.

La poesia, oggi come allora, prende forma e concretezza dalla musicalità della parola, non necessariamente con un’impronta armonica tradizionale ma semplicemente assumendo una natura ritmica, musicale, talvolta dissonante.

Ralph Waldo Emerson ricorda che “solo la poesia ispira poesia”, perché la poesia risponde a un codice diverso, antico, prioritario, ha una sua dimensione estetica che è al tempo stesso figurativa e ritmica.

Per questo motivo è difficile separare la poesia dalla lingua madre, creando uno iato tra l’articolazione linguistica e il rimo musicale; il solfeggio diventa inopportuno se, improvvisamente, viene cambiato il numero delle battute a discapito della partitura. Ed è il motivo per cui la poesia deve essere letta nella lingua originale, la traduzione, infatti fatalmente, per le ragioni anzidette, modifica sostanzialmente l’impianto poetico.

Ciò non toglie che vi siano grandi traduttori che riescono a preservare della poesia tradotta il carattere originario e a mantenere inalterato il fascino musicale. Normalmente sono poeti traduttori e quindi in grado di tradurre poeticamente.

Negli ultimi anni però le case editrici, non si sa bene perché, hanno scelto traduttori che alla banalità delle trasposizioni uniscono una pervicace ricerca di parole musicalmente inadatte.

In una delle poesie più belle di Rainer Maria Rilke, intitolata: “Orpheus, Euridyke, Hermes” , è raccontato lo sfortunato tentativo di Orfeo di riportare in vita la giovane moglie. Orfeo ha l’ordine di non voltarsi a guardare Euridice fino a quando, ambedue, non avranno lasciato il mondo dei morti. Rilke descrive il cammino incerto di Euridice verso la luce, la giovane donna è ancora avvolta dalle bende funebri e  il suo pensiero è lontano dalla vita, comunque cammina, accompagnata da Hermes, seguendo i passi di Orfeo.

Basta accostare la bellissima traduzione di Giaime Pintor a quella attuale per notare in quest’ultima la totale assenza di musicalità e tensione poetica. Un esempio: Euridice resa incerta dalle bende diventa inceppata, neanche fosse un’arma da fuoco.

Un altro esempio viene dalle traduzioni dei Canti Pisani di Ezra Pound.

Le attuali sono generalmente piatte, non rendono onore alla poesia, sfido a ritrovare oggi il senso e la musicalità dei versi di un’edizione italiana degli anni cinquanta: “questa non è vanità, perché qui l’errore è in ciò che non si è fatto. Nella diffidenza che fece esitare”.

E’ difficile trovare questo brano senza il testo originale a fronte e quando, finalmente, riusciamo a individuarlo il senso è cambiato ed è mutato anche il significato.

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Probabilmente è la conseguenza di una progressiva perdita del valore editoriale della poesia che ha avuto luogo negli ultimi anni, cominciata con la difficoltà di pubblicare e scoprire nuovi autori, proseguita con le bassissime tirature offerte solo a poeti già noti, culminata in un decadimento grossolano della scelta delle traduzioni dei grandi autori.

Forse sono anche diminuiti i lettori, gli interpreti capaci di leggere in modo sentito la poesia trasferendola al pubblico, e sono diventate rare le occasioni di rappresentare poesia, così come si faceva una volta.

Le riflessioni di Ralph Waldo Emerson suggeriscono un percorso che parte da lontano. I fossili, testimonianze di una vita passata hanno ritrovato nella durezza indistinta della pietra un carattere evocativo, diverso da quello originario, staticamente non vivente, limitato all’icona ma comunque efficace.

Questa capacità metamorfica viene dalla natura, così come era per la poesia originaria, quando essa prendeva spunto dalle emozioni ancestrali e dalla rappresentazione della vita nell’ambiente naturale.

Non c’è dubbio che recentemente la connessione sia venuta a mancare, o comunque abbia perso interesse, infatti oggi, per ovvie ragioni di mercato, la società antepone al prezioso recupero di un’identità naturale, sempre meno disponibile anche nel contesto della memoria, il consumo di un’attualità scadente ma disponibile in abbondanza e talvolta in eccesso.

Così sembrano lontane le voci dei marinai del porto di Louis Brauquier, uomini che escono dalle pance nere delle navi sfiorando con passi malfermi i sassi di Marsiglia e i pesci neri e le alghe del Rio della Plata, figli dalla penna di Haroldo Conti prima di essere inghiottito  dal tragico tuffo finale, e il mare che voleva diventare e poi è diventato Gregory Corso, e la ballata del re di maggio di Allen Ginsberg, e le dune di Big Sur e quelle bianche dell’Indiana di Emanuel Carnevali, the black poet, e il tiaso dolce di Saffo, lievemente erotico, e il canzoniere anarchico di Salvatore Toma, e i passaggi, le scie vertiginose, di Henri Michaux e la terra ribelle di Zanzotto, sono lontane queste voci, talvolta paiono sciogliersi e annullarsi nella contemporaneità, ma in verità sono incastonate come fossili nella roccia durevole della nostra memoria.

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Andrea Zanzotto. Conglomerati

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“Nel più accanitamente disseppellito

                       dei verdi dei versi

                       dei ghiacci

Nel supremo tepore o torpore dei colori

indulgenti inclementi insolenti

                         senza tempo senza ore”

Nei primi anni ottanta lavoravo in una casa editrice universitaria.

I testi che vendevano di più erano adottati nelle facoltà scientifiche in particolare ingegneria e medicina e noi redattori, eravamo in due, ci adoperavamo per convincere i docenti di quelle facoltà a pubblicare per i tipi dell’editrice universitaria, spesso riuscendo a trasformare le migliori dispense degli studenti in volumi ricchi di grafici e immagini. Essendo stato assunto in un secondo momento non avevo grandi titoli nel mio portafoglio ma solo un vasto terreno da esplorare che comprendeva le facoltà di medicina, se ricordo bene anche fisica e biologia, e lettere e filosofia.

Gli studenti di lettere non erano molti, perlomeno rispetto a medicina e ingegneria, poi i docenti preferivano, per ragioni di immagine e status, pubblicare con le case editrici più note. Quindi non era facile inserire in catalogo titoli che avessero valore contenutistico e al tempo stesso assicurassero un buon ritorno economico.

Ricordo però di aver seguito l’edizione di un testo dedicato al poeta Andrea Zanzotto. L’autore, di cui invece ora non ricordo il nome, era un giovane assistente universitario appassionato di poesia contemporanea e di Zanzotto in modo speciale.

Un giorno d’autunno partimmo insieme, guidavo io, per raggiungere Pieve di Soligo dove Zanzotto abitava. Oggi non so dire perché eravamo andati a trovarlo, forse l’autore aveva bisogno di confrontare con il poeta parti di testo e ricordando la sua puntigliosità, che spesso si trasformava in pignoleria, credo la ragione fosse quella. Così partimmo e in una giornata autunnale soleggiata, in cui i colori dell’autunno cominciavano a perdere forza a favore delle diverse tonalità di grigio dell’inverno, in poco più di un’ora arrivammo sotto il Montello, lo strano colle lungo che fa da cornice alla marca trevigiana, e poi a Pieve di Soligo.

Il maestro era in cucina, una stanza lignea, a suo modo preziosa e sul capo indossava uno zuccotto di lana, per difendersi dai primi freddi e dall’umidità. Aveva uno sguardo mobile, acuto, ficcante e osservandolo ho pensato che molta della sua poesia probabilmente veniva proprio dalle immagini che lo sguardo catturava.

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La lettura della sua ultima opera “Conglomerati” ha risvegliato questo ricordo e rafforzato quell’impressione, nata nell’istante in cui, del suo sguardo, ho colto la forza e la profondità.

I conglomerati sono rocce sedimentarie prodotte da masse di frammenti litici trasportati dalle acque dei fiumi e dalle correnti, ma in questo caso sono metafora dell’accumulazione dei detriti che comprendono, senza distinzione, i pezzi più belli della natura e gli scempi dell’uomo. C’è in questa raccolta “google che maligno come il sole e suo parente/tutti ci globalizza in peste”, vi sono i capannoni che hanno invaso, devastando, la campagna trevigiana, e le gru che testimoniano l’odiosa espansione del cemento, insieme ai suoni, ai profumi, ai discreti rumori della natura.

Frammenti di immagini e di testo che ruotando in una sorta di betoniera generano un materiale indistinto, difficile da riconoscere e decifrare. Il colore tende ad annullarsi e i ricordi svaniscono, insieme alle memorie perdute, per cui lo scenario che ne viene appare intensamente vuoto.

La perdita di memoria è la conseguenza del percorso di smarrimento dell’uomo dal contesto naturale, memoria e natura sono intimamente legate, così come le attività stagionali, i momenti della coltivazione e della raccolta, la semina e la mietitura, la potatura. Non vi può essere potatura senza trasmissione di sapere, quindi senza ricordo.

Nei primi anni ottanta la campagna trevigiana era in larga parte campagna, poi negli anni novanta, con il cosiddetto miracolo del nord est, la campagna è stata crudelmente urbanizzata, ed è nata una grande metropoli diffusa che ha cancellato i confini, i paesi, le terre.

Dopo la visita a Zanzotto ripartimmo, ormai era sera. Fuori, intanto, era scesa una nebbia fitta, bianca e impenetrabile come latte. Uno dei viaggi più faticosi che ricordi. Eravamo immersi in un nulla silenzioso che avvolgeva tutto, a mala pena riuscivo a scorgere il ciglio della strada.

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Themadjack. A special family


E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
perché ero come un figlio suo,
e mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
e giuravo sul suo nome, come ora.

E’ giunto il momento di svelare l’arcano.

Dopo alcuni post pubblicati e un non deprecabile successo di visite, penso di dover spiegare alle gentili lettrici e ai gentili lettori perché, a suo tempo, ho scelto di intitolare il blog “Themadjack”. Ovviamente una ragione c’è e la scoprirete se avrete la pazienza di scorrere le poche righe che seguono.

John Byron nasce in Inghilterra nel 1723 e nel 1731, giovanissimo come usava a quei tempi, entra a far parte della Royal Navy. Nel 1940 la HMS Wager, su cui presta servizio come guardiamarina, naufraga sulle coste della Patagonia. I sopravvissuti si dividono in due gruppi, uno cerca di raggiungere Rio de Janeiro, l’altro, di cui fa parte Byron, si dirige a nord verso i possedimenti spagnoli. Byron descrive l’avventura nel libro “The Narrative of the Honourable John Byron”. Questa vicenda e altre difficoltà, che incontra nella sua vita di ufficiale di marina, gli valgono il soprannome di “Foul Weather Jack”. (Jack meteo sbagliato).

Torna in Inghilterra nel 1745 e viene promosso capitano.

Nel 1760 al comando di una squadra navale attacca e distrugge e la fortificazione francese di Louisburg, nel luglio dello stesso anno sconfigge la flotta francese nella battaglia di Restingouche. Successivamente da capitano della HMS Dolphin compie un intero viaggio intorno al mondo che completa nel 1766. Durante il lungo viaggio scopre molte isole: Tuamotu, Tokelau, le Isole Gilbert, le Isole Marianne settentrionali.

L’anno dopo conquista le Isole Falkland in nome dell’impero di Sua Maestà Britannica, rischiando di scatenare una guerra totale tra il suo paese e la Spagna. Evento che, come ben sappiamo, si è ripetuto anche in tempi recenti con l’Argentina.

Viene nominato governatore di Terranova. Non è ricordato per particolari riforme, a parte alcuni interventi sulle interferenze tra Inglesi e Francesi riguardo alle attività di pesca. Nel 1775, è promosso Contrammiraglio del blu, e nel 1778, vice-ammiraglio del blu. Nominato vice-ammiraglio del bianco nel 1780 muore a Londra nel 1786.

Il figlio del vice-ammiraglio “Foul Weather Jack”, nato nel 1756, segue le tracce del padre di cui porta anche il nome, si chiama infatti John Byron. Frequenta la Westminster School. Consegue il grado di Capitano delle Guardie Coldstream.  Il Reggimento di fanteria Coldstream di Sua Maestà (Her Majesty’s Coldstream Regiment of Foot Guards), conosciuto ufficialmente anche come Coldstream Guards, è il più antico reggimento dell’esercito britannico (Guards Division).

John II Byron ha una vita sentimentale molto movimentata. Fugge con Amelia Osborne, marchesa di Carmarthen, si sposano il 1 giugno 1779 a Londra, Inghilterra. Amelia Osborne muore pochi anni dopo, nel 1784.

Byron allora, solo l’anno successivo, sposa Catherine Gordon, erede di Gight in Aberdeenshire, Scozia, figlia di George Gordon e Catherine Innes. Con Catherine ha un figlio: George Gordon Byron, più tardi il sesto barone di Byron. Il capitano Byron prende nel frattempo il cognome Gordon per acquisire i beni della moglie. Sperpera gran parte della sua fortuna al punto che la signora Byron lo abbandona portando con sé il bambino.

Queste vicessitudini e un comportamento sfrontato e dissoluto gli valgono il soprannome di “Mad Jack”.

Muore nel 1791 a soli 35 anni, a Valenciennes.

Nipote del vice ammiraglio John Byron “Foul Weather Jack” e  figlio del capitano John Byron “Mad Jack” è  George Gordon Byron, meglio conosciuto come  Lord Byron, uno dei più grandi e geniali poeti di sempre.

Suoi brevi versi, dedicati al mare che tanto ha amato, sono riportati nell’incipit di queste annotazioni.

Possiamo quindi perdonare Themadjack della vita sfrontata e dissoluta e di essersi abbandonato agli eccessi (pare sia morto di overdose)?

Credo proprio di sì, senza il suo significativo contributo non avremmo mai avuto l’immenso piacere di leggere le opere di Lord Byron e del resto, proprio Byron ci ha insegnato che il futuro (come il passato) è spesso ingannevole e non fanno eccezione il ricordo e il pensiero di noi stessi.

Il tempo risparmia solo le parole e le cose, poco importa siano frutto dell’ebbrezza, carichi di significato sono, soprattutto, il fascino e le emozioni che riescono ancora a effondere.

William Carlos Williams. La tecnica dell’immaginario

Vi sono autori che hanno il dono incredibile della contemporaneità, una virtù che ha senz’altro molto a che vedere con la nozione di futuro rappresentata in modo esauriente da Marc Augé ma anche con le loro doti intrinseche relative all’immediatezza e alla freschezza narrativa, a scapito del tempo.

Purtroppo nell’attuale contesto dell’editoria italiana, prevalentemente occupata, a parte rari casi, a promuovere frutti di lobby sorpassate o, peggio, a valorizzare scambi di favori, i grandi contributi faticano a imporsi o a riemergere.

William Carlos Williams è stato uno dei maggiori poeti americani del secolo scorso ma da noi è quasi sconosciuto. Laureatosi nel 1906 in medicina all’Università di Pennsylvania ha svolto per tutta la vita la professione di medico pediatra facendo nascere più di duemila bambini. La pratica medica non gli ha impedito di dedicarsi alla letteratura scrivendo prevalentemente la notte. Amico di Ezra Pound e James Joyce, ma anche d’artisti d’avanguardia come Marcel Duchamp e Francis Picabia, fece parte del movimento imagista. I poeti della Beat generation, in particolare Allen Ginsberg, lo considerarono un maestro e un punto di riferimento.

Qualche mese dopo la morte (marzo 1963) gli fu assegnato postumo il Premio Pulitzer grazie a quella che possiamo considerare la sua opera di maggior successo, insieme a “Nelle vene dell’America”, : “Pictures from Brueghel and Other Poems“.

La raccolta di saggi tratti da “Selected Essays of William Carlos Williams” e pubblicata in Italia nel 1981 da SugarCo con il titolo “La tecnica dell’immaginario” è presso ché introvabile a meno di non raschiare i negozi di libri usati o le provvidenziali bancarelle.

L’immaginazione di William Carlos Williams è una energia libera che si sposa con la tensione emotiva tipica delle esplorazioni selvagge, il percorso creativo non conosce limiti, le leggi sono provvisorie e gli incroci, per dirla alla Michel Leiris, le intersezioni, sono occasioni di conoscenza, passaggi obbligatori nella dinamica delle opportunità.

Sono lo spirito della frontiera, la pulsione a spostare i confini del possibile, il coraggio di mettersi in gioco le energie che William Carlos Williams mette al servizio dell’immaginazione, tutto molto diverso dall’approccio culturale europeo, a suo dire, prigioniero di uno stilismo retrospettivo, rivolto al passato e alla conservazione dei confini esistenti.

L’obiettivo della scrittura non è l’insegnamento, la pubblicità, la vendita e nemmeno la comunicazione, piuttosto lo svelamento. Lo svelamento di cosa? Dell’interiorità dell’uomo, dischiudendo il nascosto. “La differenza fra colui che svela e gli altri è che egli svela se stesso, non voi”. Anche la nascita di un bambino è uno svelamento ma quando il bambino viene inserito in un gruppo attraverso una qualsiasi pratica religiosa lo svelamento ha fine.

La promessa di una profusione illimitata viene smentita dalla prigione della distinzione. Così nasce la forma della prevaricazione e la conseguenza è la sopravvivenza, non una vita nella sua pienezza. Una vita, a suo modo, deforme. E’ forse questa la ragione per cui Marcel Proust ha scavato nella propria mente alla ricerca del tempo perduto:  a causa delle coercizioni e dei vuoti inespressi e quindi pensando a quello che avrebbe potuto essere e non è stato.

La poesia è l’occasione di dare voce agli stimoli della composizione e di espandere la forza del linguaggio e del testo oltre le gabbie formali e descrittive, oltre la tirannia del sonetto. Un modo nuovo di impiegare il linguaggio tenendo conto delle bocche dei viventi, dei dialetti, delle reali forme di espressione, della lingua in movimento.

Il racconto, in virtù della sua brevità, è il miglior modo per valorizzare una singola idea. I grandi racconti, per esempio quelli di Hemingway e di Poe hanno tutti una cornice, come i quadri. Conta la vita che c’è dentro, la vita che si anima nell’espressione.

Per William Carlos Williams quel brandello di vita deve balzare fuori dalla cornice come un pugno. Il racconto è lo schema da cui parte un pugno. Può essere un pugno filosofico come nella Repubblica di Platone, o il pugno dello Scarabeo d’oro, comunque un pugno.

Il pugno dell’arte.

Saffo. Un essere meraviglioso

Tramontata è la luna 
e le Pleiadi a mezzo della notte; 
anche giovinezza già dilegua, 
e ora nel mio letto resto sola. 

Scuote l’anima mia Eros
come vento sul monte 
che irrompe entro le querce; 
e scioglie le membra e le agita, 
dolce amara indomabile belva. 

Ma a me non ape, non miele; 
e soffro e desidero. 

Oggi è l’8 marzo e mi piace ricordare una grande poetessa, la prima di cui si hanno notizie, anche se, a dire il vero, molto frammentarie.

Pensate che gli studiosi della famosa biblioteca di Alessandria, quella andata distrutta da un incendio nell’antichità che pare contenesse circa cinquecento mila volumi o rotoli di pergamena, suddivisero la sua opera in otto o nove libri, organizzati secondo criteri metrici. Il primo libro comprendeva i carmi ed era composto da circa 1320 versi.

Di questa grande produzione rimangono solo alcuni frammenti. L’unico componimento poetico giunto integro è il cosiddetto “Inno ad Afrodite”, con cui si apriva il primo libro dell’edizione alessandrina della poetessa. In questo testo Saffo si rivolge alla dea Afrodite chiedendole di esserle alleata in un amore non corrisposto.

La grande poetessa greca nasce tra la fine del sec. VII e gli inizi del VI a.C. a Lesbo, un’isola del Mare Egeo nord-orientale, vicina alla costa dell’Asia Minore, dove era la Troade, allora territorio frigio, confinante con la Lidia.

Fu contemporanea di Alceo e di Stesicoro, ebbe tre fratelli, Larico, Carasso ed Eurigio, fu sposata con Cercila, un uomo ricchissimo, originario dell’isola di Andro, dal quale ebbe un’unica figlia, chiamata Cleide.

A quell’epoca questo regno era al massimo dello splendore grazie anche al forte influsso della cultura ellenica che influenzava lo stile di vita delle famiglie aristocratiche residenti nelle colonie ioniche ed eoliche situate sulla zona costiera.

Questi antichi insediamenti greci costituivano la prima espansione coloniale al di fuori del continente ellenico e i coloni consideravano legittimo il loro possesso perché si consideravano eredi degli eroi che avevano conquistato Troia.

Saffo trascorse a Lesbo la maggior parte della sua vita.

La sua esistenza fu però, per un certo periodo, sconvolta da sanguinose guerre civili, omicidi politici e colpi di stato e così la poetessa e i suoi familiari furono costretti all’esilio in Sicilia.

Scrisse canti lirici, compose epigrammi, elegie, giambi e monodie, avrebbe inventato il plettro e la phktiv, una specie di arpa.

Ebbe come compagne e amiche Attide, Telesippa e Megara, con le quali fu accusata di intrattenere relazioni. Sue allieve furono anche  Anagora di Mileto, Gongila di Colofone ed Eunica di Salamina.

Quest’ultima informazione è confermata da un papiro del II sec. d.C., in cui un anonimo commentatore afferma che Saffo trascorse la sua vita educando in serenità non solo le ragazze più nobili del luogo, ma anche quelle provenienti dalla Ionia, e che fu tenuta in altissima considerazione dai concittadini, i quali le avrebbero concesso a Mitilene la proedria della festa in onore di Afrodite. L’attuale tribuna riservata alle autorità.

Il poeta Anacreonte, vissuto un secolo dopo, diffuse la tesi che la poetessa avesse per le fanciulle, che educava alla musica, alla danza e alla poesia un amore omosessuale. Strabone, molto dopo, la definì un essere meraviglioso.

Comunque, nel mondo greco di allora l’erotismo era parte integrante del sistema di trasmissione della cultura e dell’etica, sostanzialmente una forma di espressione della personalità tanto più in un contesto ristretto qual era il tiaso femminile. Il tiaso (θίασος, thíasos), infatti, era un’associazione religiosa che celebrava il culto di un dio, specialmente quello di Dioniso con processioni, canti e danze.

Il peccato e il diavolo, a quel tempo, non erano ancora stati inventati.

Un esercito di cavalieri, dicono alcuni,
altri di fanti, altri di navi,
sia sulla terra nera la cosa più bella:
io dico, ciò che si ama.

Louis Brauquier. Il poeta di Marsiglia

“Il mare

A metà addormentato, mi prendeva tra le sue braccia

Come se raccogliesse un pesce perduto…”

(tratto da Louis Brauquier di Francesca Mazzucato)

Louis Brauquier nasce a Marsiglia nel 1900 e vi muore nel 1976. Lavora come agente delle Messaggerie Marittime. E’ anche pittore ma soprattutto poeta e come tale autore di una decina di raccolte.

Collabora con vari periodici e riviste letterarie fra cui: Les Chaiers du Sud, Le Courrier des Messageries Maritimes, La Nouvelle Revue française, Ophrys e altre.

Uomo e poeta timido e nomade, riesce comunque a  influenzare con la sua opera molti narratori francesi. Le sue poesie sono un costante omaggio al primo porto di Francia: Marsiglia.

Marsiglia è il locus vivo e, al tempo stesso, ideale di Louis Brauquier. Le sue poesie mettono in luce i colori della città ma anche gli odori, i rumori e la nostalgia del marinaio che parte e dei marinai che giungono da terre lontane.

Il mare è la grande fabbrica di emozioni e il fulcro della sua poetica. Una sorta di enorme plastico blu che consente a tutti i porti e ai mari del mondo, attraverso linee leggere di rotte tracciate a matita sulle carte nautiche, di connettersi a Marsiglia.

Il viaggio ideale di Louis Brauquier non può che compiersi per mare e iniziare o finire nella sua città. E la città è sempre porto, un sistema integrato di scambi attraverso il quale passano merci, ferraglie contorte,  balle di cotone ; beni destinati semplicemente al carico e allo scarico.

Marsiglia è anche l’ osservatorio privilegiato per  notare i movimenti dei nuovi nomadi e ragionare sulla dimensione cosmopolita dei rapporti umani e sulla formidabile miscela di relazioni prodotta dalle attività commerciali.

Per questa ragione Brauquier è poeta originale. Scrive ma nel contempo lavora e fa un mestiere che lo tiene attaccato ai flussi concreti della vita dando profondità e  forza al racconto.

A Luois Brauquier, infatti, interessa soprattutto cogliere l’attimo in cui la linfa dell’esperienza e delle vite vissute si mescola con il ferro delle navi e poi, da ultimo, con le pietre della sua Marsiglia.

Salvatore Toma. Canzoniere della morte

Maria Corti nel 1999 dovette inventarsi il suicidio di Salvatore per convincere l’editore Einaudi a pubblicare questa raccolta di poesie.

Salvatore Toma nasce a Maglie nel Salento nel 1951, da una famiglia di fiorai, e insieme a Antonio Verri e Claudia Ruggeri fa parte dei cosiddetti “poeti maledetti salentini”.

Frequenta il liceo classico, ma non prosegue gli studi, anche se coltiva da autodidatta le materie che più gli interessano: letteratura e ovviamente poesia.

Vive nella tenuta dei genitori occupandosi della campagna e trascorrendo ore in un bosco di querce, “le Ciàncole”, appostato comodamente sui rami di un grande albero.

Pubblica (dal 1979 al 1983) sei raccolte di poesie, rispettivamente: Poesie, Ad esempio una vacanza, Poesie scelte, Un anno in sospeso, Ancora un anno e Forse ci siamo.

La sua morte prematura,  avvenuta quando aveva appena trentacinque anni viene, da alcuni, attribuita al suicidio, in realtà sembra sia sopraggiunta per un uso eccessivo di alcolici.

La sua notorietà a livello nazionale deriva dalla pubblicazione della raccolta di poesie Canzoniere della Morte (Einaudi 1999), a cura della filologa Maria Corti.

Le tematiche più ricorrenti della poesia di Toma sono la morte, il suicidio e l’amore per la natura e gli animali. Mette a confronto la solitudine dell’uomo con la vita silente della natura.

E’ anarchico e anticonformista, appassionato di poesia border line, quindi autore e poeta laterale e assolutamente fuori dagli schemi.

Amante dell’eccesso fu travolto dalla passione per l’alcool, per questo motivo si ammalò incurabilmente di cirrosi epatica.

Dopo la scomparsa della Corti avvenuta nel 2002, la poesia di Toma rischiava di essere definitivamente dimenticata. Un folto gruppo di intellettuali meridionali promosse una raccolta di firme per chiedere la ristampa del volume al tempo esaurito, tentando anche di rilevare i diritti di autore per pubblicare il libro altrove.

L’iniziativa provocò una vasta eco in tutta Italia e la casa editrice decise, di conseguenza, di ristampare il Canzoniere.

Elio Scarciglia ha realizzato nel 2005 un documentario su Salvatore Toma, ricco di testimonianze e intitolato “Il bosco delle parole”.

“Quando sarò morto

che non vi venga in mente

di mettere manifesti:

morto serenamente

o dopo lunga sofferenza

o peggio ancora in grazia di dio.

Io sono morto

per la vostra presenza.”

Salvatore Toma. Canzoniere della morte