Leggere e ragionare sulla scomparsa dell’arte e riscontrare, in base a elementi tangibili, l’evidenza di un processo di smaterializzazione e di automatica mutazione della sua identità in concetto astratto, replicabile infinite volte e assimilabile a un’idea, anzi meglio a uno stereotipo, porta inevitabilmente al rimpianto di un tempo lontano quando, anche, l’arte nasceva e si sviluppava in funzione a un uso naturale del mondo.
Messo da parte il rimpianto, la sensazione che emerge e diventa subito consapevolezza (con le parole dei filosofi, Nietzsche e Heidegger, tra Dioniso, la cura delle cose e l’esserci nel mondo) è che l’arte, come forma di espressione dell’Uomo, ha perso la sua funzione rappresentante, il suo senso, quando l’Uomo ha allentato il legame con la Natura, per poi scioglierlo definitivamente. L’uso naturale del mondo infatti oggi non esiste più, sostituito da infiniti artifizi, dalle fabbriche dell’alimentazione alla fiction turistica, e quando sembra che esista assomiglia molto a uno spot pubblicitario.
Stride con questa realtà il pensiero di Joan Miró, il pittore giardiniere, il suo desiderio di anonimato, essere nella terra e nel naturale, e la sua pittura come traccia colorata di un istantaneo passaggio vitale. O le geometrie di Piet Mondrian che talvolta ricordano gusci di certe conchiglie, semplicemente studiati, interpretati e riproposti su tela.
Qualche anno addietro passeggiavo con un amico in un bosco dell’Appennino abruzzese, un bosco fitto di castagni e querce. C’erano grandi castagni antichi, lisci, sembravano torrioni di mura abbandonati nel folto. Il mio amico mi disse che quelle piante erano destinate a seccarsi e a morire perché anche gli anziani del paese erano morti e nessuno le curava più. Poi mi fece vedere le buche, in mezzo alle radure, disse che nelle buche i vecchi seppellivano i ricci delle castagne e dopo qualche tempo tornavano a prenderle. Il bosco una volta era pieno di gente. Oggi non c’è nessuno.
Molti anni fa, invece, ero ancora ragazzo e con la mia famiglia mi recai in Val Camonica a visitare un sito particolare, la località si chiama Capo di Ponte in provincia di Brescia e il sito è il Parco nazionale delle incisioni rupestri di Naquane. Uomini vissuti nel neolitico e forse ancor prima, quindi più di settemila anni fa, avevano inciso sulle rocce scene di vita quotidiana, di caccia, animali, lotte, forse erano pastori che sorvegliando il gregge ingannavano il tempo disegnando la pietra. Oppure le incisioni avevano carattere religioso, ideogrammi, simboli celebrativi, iniziatici o propiziatori.
Pitture rupestri che hanno una grande forza, sono a mio parere, quelle rinvenute nelle grotte di Lascaux vicino al villaggio di Montignac nel dipartimento di Dordogna, la luce artificiale accende tori dalle grardi corna, sembrano dipinti da Picasso, bisonti, cavalli, animali estinti, uomini che paiono tori e tori che paiono uomini. Colpiscono i colori, la loro vitalità a dispetto dei millenni, il calore delle forme e in taluni casi anche la profondità.
Nessuno ricorda i nomi dei pittori primitivi di Lascaux e nessuno rammenta i nomi degli incisori di Naquane, ma le loro opere sono a ricordare quanto la natura sia stata e sia importante nella storia dell’Uomo. E’ nascosta, ma è li che ci aspetta, in fondo al nostro percorso breve. In “Umano, troppo umano” Nieztsche ammette che: “ci troviamo così bene nella libera natura, perché essa non ha alcuna opinione su di noi.”
Sulle rocce di Naquane un antenato ha inciso un labirinto, qualche millennio prima che Minosse ne costruisse uno per custodire il suo sfortunato figlio. Nella nostra storia c’è sempre stato un labirinto dentro il quale nascondere la nostra vera primigenia identità.
Anche l’arte, allontanandosi dalla natura, ha perso la propria, oggi forse si confonde tra le luci al neon di un’insegna pubblicitaria.