Rainer Maria Rilke. La prospettiva di Euridice

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In un capitolo de “Lo spazio letterario”, intitolato “Lo sguardo di Orfeo”, Maurice Blanchot  interpreta la vicenda mitologica di Orfeo e Euridice.

Il mito di Orfeo è raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. Euridice, giovane sposa, viene morsa da una serpe mentre attraversa la campagna insieme a un gruppo di Naiadi. Orfeo scende agli Inferi ove prega Ade e Persefone di riportare in vita la moglie: “non è un dono quello che vi chiedo ma un prestito. Se poi i fati non vogliono essere indulgenti con la mia consorte, ho deciso di non ritornare in vita nemmeno io; due saranno i morti: godetene.”

Blanchot descrive il momento centrale, reso celebre dal mito, della discesa di Orfeo agli Inferi. L’arte è la forza potente che spinge Orfeo ad attraversare l’oscurità del mondo precluso e la salvezza di Euridice è il culmine della sua arte: il lato oscuro del desiderio, riprodurre la realtà nel campo del nulla irreale.

Certamente il progetto di Orfeo, coltivato alla luce del giorno, è di riportare in vita l’amata, ma nel passaggio dal mondo dei morti alla luce, che è anche il passaggio dal giorno alla notte senza spazio e tempo, il progetto si perde, si decompone.

“Ella si trovava in mezzo a un gruppo di ombre arrivate da poco e si avanzò con un passo reso lento dalla ferita. Fu consegnata al cantore del Rodope cui insieme fu imposto il divieto di voltarsi a guardarla fintanto che non avesse oltrepassato le soglie dell’Averno. Se avesse violato questa condizione, il dono si sarebbe vanificato”.

Questa la consegna di Ade e Persefone, cui Orfeo però non riesce a tener fede.

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Orfeo, infatti, prima di uscire dagli Inferi si volta a guardare Euridice e lei gli viene sottratta per sempre.

Perché si volta, sapendo bene a quale conseguenza sarebbe andato incontro?

“Orfeo è colpevole di impazienza” scrive Blanchot e aggiunge “L’impazienza è lo sbaglio di chi vuole sottrarsi all’assenza di tempo, la pazienza è l’astuzia che cerca di dominare questa assenza di tempo facendone un altro tempo, altrimenti misurato. Ma la vera pazienza non esclude l’impazienza, essa ne è l’intimità, impazienza sofferta e tollerata senza fine”.

Nel passaggio, Orfeo smarrisce il senso della costruzione progettuale, perde la pulsione a creare nello spazio reale. Il suo è un comportamento inaccettabile alla luce del giorno ma è il riflesso dell’irrealtà e anche il movimento dell’arte.

La notte l’Orfeo del giorno si dissolve lasciando posto all’Orfeo noncurante, curioso e impaziente. L’esperienza del passaggio cancella il progetto che l’aveva suggerita e produce il suo contrario, al centro ora vi sono il passaggio e l’esperienza del passaggio, non più il progetto iniziale.

E Euridice?

A riportare la prospettiva di Euridice è il grande poeta boemo Rainer Maria Rilke in una delle sue  poesie più belle: “Orpheus, Euridyke, Hermes”. Gli dei hanno accolto la richiesta di Orfeo e uno di loro l’accompagna, tenendola per mano, verso l’uscita dagli Inferi seguendo i passi dell’amato Orfeo. Euridice è ancora avvolta dalle bende funebri che le rendono difficile il cammino: “incerta, mite e paziente; chiusa in sé come grembo che prepari una nascita, senza un pensiero all’uomo innanzi a lei né alla via che alla vita risaliva”.

Anche Euridice è non curante, la sua indifferenza però, come la pazienza, viene dalla pienezza della morte che la pervade, “colma della sua grande morte così nuova che tutto le era incomprensibile”.
Mentre Orfeo è solo di passaggio nella dimensione vuota dell’assenza di tempo e di spazio, Euridice ormai ne fa concretamente parte e tra i due si avverte l’incolmabile abisso che divide il sentimento umano dalle espressioni semplici della natura.

Euridice: “Ormai era radice. E quando il dio bruscamente fermatala, con voce di dolore, disse – Si è voltato- lei non capì e in un soffio chiese: Chi?”

Orfeo e Euridice sono ambedue non curanti, indifferenti al fine in modo diverso, ma profondamente simile nella conseguenza.

“…accerchiati da quel silenzio che tutto lo spazio immenso ha in sé e nelle orecchie spira quasi fosse la faccia opposta del silenzio, il canto cui nessun uomo resiste.” Rilke, L’isola delle sirene.

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Mario Perniola. L’estetica contemporanea

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Ho conosciuto, la prima volta da lontano, Mario Perniola negli ultimi anni settanta grazie al suo “Georges Bataille e il negativo”, di cui conservo gelosamente una copia per i tipi di Feltrinelli,  largamente usata e consultata nella stesura della mia tesi di laurea. Un autore importante, Bataille, e davvero visionario per le sue intuizioni originali in materia di desiderio, eccesso, dépense e marginalità sociale.

L’estetica contemporanea è un lavoro che si svolge assecondando percorsi ispirati dalle tensioni della vita, superando e di fatto contravvenendo la costruzione ragionevole di una dimensione unitaria. Un pensiero disorganico che segue il fluire delle pulsioni vitali: vita, forma, conoscenza, azione, sentire, cultura.  In questi ambiti apparentemente distinti, ma in realtà intimamente connessi quasi fossero capillari venosi, Mario Perniola individua i principali movimenti dell’estetica illustrandoli e spiegandoli con precisione e chiarezza: da Dilthey a Foucault (estetica della vita), da Wölfflin a McLuhan e Lyotard (estetica della forma), da Croce a Goodman (estetica e conoscenza), da Dewey a Bloom (estetica e azione). Trattando il tema del sentire emerge la passione dell’Autore per i territori impervi della sensibilità e della affettività (Bataille, Blanchot, Klossowski).

Ma vi sono anche riflessioni che ben si coniugano con i contenuti della nostra ricerca, come quella sul filosofo italiano, poco conosciuto al grande pubblico, Luigi Pareyson per il quale le “anime belle” sono di nichilisti riconciliati con la vita, atei lontani dalla filosofia che evoca i territori del rischio e delle sfide impossibili. La realtà è per Pareyson un’entità separata dal pensiero e l’uomo moderno la guarda con uno stupore ragionevole.  Lo stesso stupore che nutre di fronte alla sofferenza e all’altalenante susseguirsi delle dinamiche di umiliazione e rinascita.

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Anche il discorso e la scrittura, come forme di espressione, debbono essere considerate in modo diverso e l’opera di Jacques Derrida “Della grammatologia” spiega quanto il processo di asservimento del segno alla voce sia legato all’antica considerazione del logos, il discorso, inteso come origine della verità. La scrittura, il “tessuto dei segni”, proiezione esterna e tangibile del linguaggio rivendica la precedenza, costruita attraverso l’intreccio con le forme d’arte primordiale e le descrizioni naturali.

La scrittura, prodotto del disaccoppiamento del segno dal linguaggio è anche metafora di estraniamento, è vero è separata dalla persona, di cui è espressione periferica, ma non per questo è limitata, anzi ripropone in forma originale il tema dell’identità attraverso la differenza, la ripetizione e la duplicazione.

L’arte contemporanea invece ha perso identità, è arte ciò che viene presentato e rappresentato nel campo dell’arte, a prescindere da ogni considerazione estetica, comprese le categorie del bello e del brutto. E’ il mercato a definire l’effettivo status di opera d’arte. Sono i campi e gli scompartimenti a dare l’imprimatur d’arte e cultura agli oggetti e agli uomini che contengono. Almeno per il pubblico.

L’estetica occidentale, trasfigurata dalle logiche di mercato, sfiorisce di fronte alle acute pagine orientali di Li Zehou che descrive il passaggio da un mondo mitico popolato di creature fantastiche al mondo moderno e che prevede nel percorso di un futuro, riconoscente del passato, la possibile riscoperta della bellezza e dell’educazione estetica.

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Georges Bataille. La letteratura e il male

Georges Bataille, forse il più importante pensatore (filosofo, scrittore, antropologo, economista) francese del secolo scorso, nasce nel 1897 a Billon, Puy-de-Dome. La madre ha problemi psichici e il padre è affetto da sifilide.

Nel 1900 la famiglia Bataille si trasferisce a Reims. Quando inizia la prima guerra mondiale madre e figlio lasciano il padre cieco e paralizzato al suo destino. Episodio che rimarrà indelebile nella coscienza di Georges.

Negli anni venti Bataille diventa bibliotecario alla Biblioteca Nazionale.

E’autore di opere importanti tra cui: Histoire de l’oeil (Storia dell’occhio), Documents, L’azzurro del cielo, L’esperienza interiore, Su Nietzsche, La parte maledetta, L’erotismo, Le lacrime d’eros e ovviamente La letteratura e il male.  Le opere di Bataille sono comprese nei dodici volumi G. Bataille, Opere complete, pubblicati dall’editore Gallimard.

Nel 1936 fonda la rivista Acéphale  frequentata da autori di grande livello tra i quali Pierre Klossovski, Jean Paul Sartre, Claude   Levy Strauss, Walter Benjamin, Theodor Adorno, la copertina è firmata da André Masson.

Verso la fine degli anni quaranta Bataille diviene di fatto il punto di riferimento della nuova cultura francese. E’ anche grazie a lui e che prendono avvio i lavori e le opere di autori come Roland Barthes, Jacques Derrida, Maurice Blanchot e Michel Foucault. Muore l’8 luglio 1962.

La letteratura e il male affronta, raccontando le vicissitudini creative di grandi autori, il tema del confine tra il bene e il male e il travaglio del suo superamento. E’ forte in Bataille l’influsso di Nietzsche, riletto sviscerando il significato estremo e intimo di dionisiaco e immergendosi per intero nel campo dell’emotività e dell’eccesso.

Gli scrittori e la scrittrice (Emily Brontë, Charles Baudelaire, Jules Michelet, William Blake, DAF de Sade, Marcel Proust, Franz Kafka e Jean Genet) sono tutti  inevitabilmente di matrice borghese e affondano le proprie radici nella cultura cattolica e protestante, comunque cristiana, o ebraica quindi prigionieri del rigido assioma etico che distingue e allo stesso tempo confonde il bene e il male.

Nella visione di Bataille l’assioma viene rovesciato: avvicinarsi al Male e mettere il discussione il Bene è  innanzitutto condizione di libertà. Queste categorie sono artefatte e costruite a partire dalla negazione dell’essenza stessa di Dioniso. Il Male allora diventa opposizione, antitesi formale di tutto ciò che è accettato convenzionalmente e storicamente come  Bene.

Lo scrittore deve necessariamente superare questa dicotomia, lambire e penetrare terreni oscuri, in primis perché il racconto deve essere vero e poi perché attraverso la scrittura lo scrittore si mette in gioco.

C’è nella gestualità dello scrivere, travalicando, un accenno alla dimensione infantile, al sorriso puro e ancora inconsapevole dei divieti e delle proibizioni sociali, c’è il senso profondo e primitivo del coraggio e dell’autenticità. La letteratura autentica è sempre “prometeica”, perché mette in discussione le norme delle convenzioni e i princìpi della prudenza.

Il vero scrittore trasgredisce le leggi della società, per questo è colpevole, di una colpa che non porta al pentimento ma a forme estreme di soddisfazione e realizzazione.

Da non perdere l’intervista originale a Georges Bataille su You Tube e il rilevante saggio di Mario Perniola (il filosofo italiano che per primo ha “scoperto” e studiato l’opera di Bataille), Bataille e il negativo.