Folco Quilici. Relitti e tesori

Alcuni libri riescono ancora a farci sognare.

Spesso c’è di mezzo il mare, la sua forza, la sua capacità di nascondere e svelare, portandoci dritti dentro storie sconosciute o dimenticate, simulacri del passato e del presente immersi nelle profondità.

Il mare significa e racchiude una dimensione primigenia, regioni nascoste e per fortuna ancora, in larga parte, incontaminate nonostante gli sforzi scellerati dell’umana incoscienza tesi alla produzione del contrario, cioè alla contaminazione e alla distruzione. Questo universo mutevole, gentile e feroce al tempo stesso, nasconde anche le nostre vestigia e i relitti delle navi di ogni tempo, dall’epoca dei Fenici ad oggi. Custodisce ricoprendo di vita, come solo la natura può fare, modificando definitivamente il valore d’uso degli oggetti, trasformando navi e aerei in abitazioni per la flora e la fauna sottomarina.

La capacità del mare di lavorare le cose: sassi, tronchi, vetri, creando forme d’arte è ben nota e in essa ritroviamo intatta l’essenza stessa dell’autentico, la verità senza il bisogno della ricerca, perché automaticamente in sé e per sé. L’inutilità della ricerca rilancia l’immagine del sentiero interrotto (Holzwege Heideggeriano) che in questo caso, però, non si annulla tra la vegetazione ma semplicemente si scioglie nell’acqua come un fiume che si stempera nel mare.

La ricerca, fisica e intangibile, per meglio dire intellettuale, fa parte del ciclo di vita dell’uomo e se non è diretta alla conoscenza quella fisica, concreta, è orientata all’utilità prima ancora che all’esperienza.

Folco Quilici fa parte di una fortunata generazione di esploratori sottomarini che ha letteralmente scoperto il mare immergendosi nelle sue profondità, cominciando con le prime maschere, i primi autorespiratori ad aria e a ossigeno, le prime pinne piccole e di gomma dura. A tutti gli effetti un pioniere come certifica la sua appartenenza al mitico equipaggio del Formica e il film Sesto Continente prodotto con Bruno Vailati. Successivamente si è dedicato alla divulgazione attraverso libri e trasmissioni televisive divenendo un punto di riferimento per gli appassionati così come è accaduto in Francia per Jacques Cousteau.

“Relitti e tesori” racconta di navi antiche e moderne, tesori del passato e dei nostri tempi ed è ricco di aneddoti e curiosità portando il lettore a scoprire come venivano costruite le navi di una volta, le navi legate, i luoghi dove era ed è più facile fare naufragio, dalla secca di Filicudi alle coste della Spagna, all’estuario del Rio della Plata. E i tesori dell’antichità: i bronzi di Riace, il Satiro danzante. I tesori dei pirati, l’oro dello Zar.

Una lettura lieve ma al tempo stesso profonda, come le navi sommerse che racconta, e fa venir voglia di cercare un vecchio libro su pirati e naufragi e partire alla ricerca del tesoro, non tanto per trovarlo ma soprattutto per sentirsi liberi e poter, ancora una volta, giocare di fantasia.

Ad esempio, camminare sulla costa dell’Isla de Coco dove “la riva è disegnata da un arco di ghiaia disseminata da scogli e iscrizioni a volte incerte, a volte precise: date e nomi di navi o di marinai qui giunti.”

Isla de Coco, proprio “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson.

 

Gianni Roghi. Dahlak

Un pomeriggio, molto piovoso, del giugno 2007 ho avuto l’onore di partecipare, come relatore, a una tavola rotonda organizzata in ricordo di Gianni Roghi presso l’acquario di Milano. Per me, un’occasione unica e, al tempo stesso, autentica perché, come altri, mi trovavo lì a parlare di una delle personalità più affascinanti del secolo appena trascorso.

Gianni Roghi è stato molto più del giornalista che alcuni ricordano, era un avventuriero, nel significato più schietto e puro del termine (uomo di avventura), uno degli ultimi grandi esploratori e sperimentatori che la storia recente abbia avuto il merito di accogliere e evidenziare.

Regista e ideatore della rassegna dedicata a Gianni Roghi era il mio caro e compianto amico Antonio Soccol e nel sito dedicato a Gianni, che ancora oggi è fruibile da parte degli appassionati, Antonio rammenta di avere avuto verso Gianni un “debito di riconoscenza esistenziale”, una ragione intima per partecipare al ricordo di un uomo che Giorgio Bocca aveva definito “troppo intelligente” e gli amici e gli estimatori ancora apprezzano per l’assoluto eclettismo e l’indissolubile energia creativa.

Dahlak è un libro pubblicato per la prima volta da Garzanti Editore nel 1954, il racconto della partecipazione di Gianni Roghi, come componente scientifico e capo ufficio stampa alla Spedizione Subacquea Italiana in Mar Rosso (28/12/1952 – 26/06/1953) alle isole Dahlak, organizzata e coordinata da Bruno Vailati.

Themadjack ha, recentemente, accolto alcune riflessioni sul film documentario “Sesto Continente”, video-cronaca degli eventi, prodotto da Bruno Vailati e Folco Quilici.

Perché le isole Dahlak?

Scrive Gianni Roghi: 
“Le ragioni sono poche ma buone. Anzitutto la spesa: volevamo condurre una spedizione in un mare tropicale corallino, e il Mar Rosso rispondeva perfettamente alle nostre esigenze essendo appunto un classico “mar di corallo”, e a distanza ragionevole dall’Italia. Per trovare costruzioni madreporiche egualmente imponenti, e la fauna relativa, sarebbe occorso traversare l’intero Oceano Indiano, o arrivare fino alle Indie Occidentali. Il finanziamento dell’impresa non l’avrebbe mai consentito.”

Completa il volume un testo d’appendice di  Francesco Baschieri sui risultati scientifici ottenuti dalla Spedizione Nazionale Subacquea Italiana in Mar Rosso. “Dahlak” ha avuto moltissime ristampe e riedizioni, oggi è disponibile presso l’editore Mursia, da sempre attento al mare.

Un brano tratto dal capitolo “La danza delle mante”:

L’Africa tropicale, l’Africa calda è un animale vivo che mangia, cresce, muore e si rigenera a scatti. È un corpo che subisce metamorfosi tanto rare quanto brutali, da un giorno all’altro, da un’ora all’altra. La crisalide che esplode in farfalla sotto i tuoi occhi; una natura che ignora i dolci passaggi delle latitudini temperate: va a balzi, a stroncature, a urli. All’Asmara, duemila metri sul mare, vidi un albero di pesco che mi fece pensare alle allegorie religiose del medioevo: alcuni rami erano secchi come d’inverno; altri avevano i boccioli; altri recavano le foglie, verdi ed espanse; altri i frutti piccoli e acerbi; altri ancora le pesche mature e ancora altri le pesche marce. Quell’albero non aveva stagioni, non sonni, non requie. Tutti gli alberi di Asmara e dell’Africa alta sono privi della misura del tempo, sono in divenire. Alberi hegeliani. Ma mentre quel pesco moriva e fioriva nei medesimi rami e con la medesima linfa, giù nell’Africa calda, giù a Dur Ghella la natura era morta bruciata da un anno. Se con il calcio del fucile battevi sui tronchi, ne udivi un suono secco di legno cavo: come bussare a una bara.

E una notte piovve, piovve sul serio, per la prima volta da un anno. Piovve tre ore continue dall’una alle quattro. Era acqua calda, a gocce grosse e pesanti. Piovve senza vento, con un fragore di cascata. La tenda s’allagò, i materassini di gomma galleggiarono, ogni cosa nostra divenne fradicia. Rimanemmo tre ore ad ascoltare la pioggia, seduti in due dita di acqua tiepida, al buio. Poi smise, l’acqua defluì lentamente, ci ricoricammo e dormimmo. Mi svegliai per primo, erano le nove. Non pioveva più e si sentiva l’aria pulita; faceva quasi fresco; ma non so, si sentiva un’aria nuova, diversa da quella solita. Mi pareva di accorgermi soltanto allora di aver respirato per tutte quelle settimane e quei mesi un’aria che aveva un sapore. O un odore, forse. Uscii dalla tenda, sbucai dalla mangrovia ancora grondante. Non c’era una nuvola. E mi misi le mani sugli occhi: quello che vedevo non poteva esser cosa della nostra terra, era magia, era stregoneria. L’isola, quell’isola grigia bruciata, era color di smeraldo.

Era scoppiata la primavera.

Ecco qui Gianni Roghi e, con lui, la meravigliosa essenza delle Isole Dahlak.

Grazie Antonio, amico mio.

Grazie  davvero di avermi fatto vivere queste emozioni.

Antonio Soccol. Il sorriso del mare

Domenica 26 febbraio alle ore 16.55 ricevo una mail dal mio amico Antonio. Una mail senza oggetto, nell’intestazione è semplicemente scritto “nessun oggetto”. Leggo il testo: “Antonio è partito per il suo lungo viaggio senza ritorno. Lo salutiamo lunedì 27 alle ore 15.15 presso il crematorio del Cimitero di Lambrate (Milano)”. Non ho potuto andare a Milano. Mi è dispiaciuto ma ho pensato che avrebbe detto, con il suo solito tono sbrigativo, “Cosa vieni a fare? Rimani a Roma è meglio, ci vediamo un’altra volta” e Antonio non amava Roma.

Adesso è lunedì 27, sono le 15.15 e racconto di lui. Un post che non avrei mai voluto scrivere.

Antonio Soccol, veneziano, uno dei più grandi giornalisti di mare e di nautica, nella sua vita ha collaborato con 131 riviste e ne ha dirette 20 tra cui Mondo Sommerso, No Limits World e tante altre. E’ stato, per più di dieci anni, copilota di imbarcazioni d’altura campioni d’Italia e d’Europa e è contitolare con Giorgio Tognelli di un record mondiale di velocità offshore. La Scuba Schools International gli ha rilasciato una carta platino che attesta più di 5.000 ore di immersione con ARA. Per la sua competenza in campo nautico è stato insignito del titolo di “Pioniere della Nautica”.

Amico e conoscente di grandi personalità della cultura, della letteratura, dell’industria e del giornalismo: J.Y.Cousteau, Gerard d’Aboville, Alex Carozzo, Gianni Agnelli, Renato “Sonny” Levi, Peter Du Cane, GB Frare, Pietro e Giampiero Baglietto, Giorgio Barilani, Franco Harrauer, Massimo Gregori, Sergio Abrami, Carlo Riva, Don Aronow, Merrik Lewis, Giorgio Tognelli, Salvatore Gagliotta, Nino Petrone, Guido Buriassi, Dick Bertram, Alberto Korda, Gianni Roghi, Carlo Marincovich, Fernanda Pivano, Gabriel Garcìa Màrques, Jorge Amado, Folco Quilici, Marian Skubin, per citarne alcuni… Gente che il mare l’ha scritto, fotografato, studiato, cantato, dipinto, raccontato, tradotto, analizzato, corso, navigato, difeso, lavorato e vissuto.

La sua, una scrittura pulita, cristallina per certi versi acquatica con la quale ha raccontato tante storie di mare, di barche, di avventura e anche di cattive abitudini, di umana debolezza e incomprensione.

Ho conosciuto Antonio più di dieci anni fa quando è uscito il mio primo romanzo “Apnea”, il libro gli piaceva e scrisse una bella recensione. Da quel giorno ci siamo sentiti spesso, per e mail e visti, le volte che salivo a Milano.  Ricordo il suo entusiasmo nell’operazione Gianni Roghi. Voleva ricordare Gianni nel migliore dei modi e far conoscere al pubblico i suoi lavori e le sue opere. Per l’occasione organizzò una vera e propria offerta multimediale: un portale internet, una mostra e alcuni convegni.

Antonio era un uomo intelligente e generoso. Un pioniere sempre, nella motonautica, nella vela (exocetus volans, la sua barca ibrida, è l’esempio più tangibile), nell’editoria, nella scrittura, nella subacquea e sul web. Uno che aveva l’avventura nel sangue e che amava sentire, come diceva spesso, le farfalle nello stomaco, piuttosto che languire e poltrire in un porto sicuro. Diamine, era il co pilota di Arcidiavolo!

Da non perdere la serie di interviste su Rai.tv, nell’ambito dei servizi “uno su mille” dedicati a Raimondo Bucher.

Quando gli comunicai che avevo deciso di farne il protagonista di un romanzo rise di gusto. Nel Sorriso del vento è Anton e il Capitano John. La stessa persona, anzi una persona con due personalità. Così, per un pezzo, divertendosi, firmò le sue mail capt John. Antonio non amava Roma e non aveva torto perché proprio da Roma era partita la discutibile iniziativa che l’aveva privato della direzione di Mondo Sommerso, la sua rivista, (mai bella come quando la dirigeva) ma ciononostante me lo trovai davanti alla presentazione del Sorriso del vento.

Come se il Capitano John fosse uscito dalle pagine del libro e materializzato, all’insaputa di tutti, davanti all’autore sbigottito e incredulo. Quella è stata una grande emozione, più di tutto il resto: del libro, degli ospiti, dei giornalisti. Sapevo, infatti, che Antonio era venuto solo per me.

L’ultima volta che l’ho sentito è stato circa due mesi fa. Al telefono. Era stanco di combattere la sua guerra marziana ma aveva ancora molta voglia di vivere.

Ciao Antonio, ciao amico caro.

“Sosta quanto puoi, lontano dai rumori del mondo. Completamente immerso nel meraviglioso nulla saziante”.

Sesto Continente. Bruno Vailati e Folco Quilici

L’avventurosa storia di una grande impresa in un mondo nuovo, e poi: un film realizzato da Bruno Vailati per la Delfinus e diretto da Folco Quilici con la partecipazione di Raimondo Bucher, primatista mondiale di immersione, e di Enza Bucher, campionessa italiana di pesca subacquea.

Queste le scritte che spiccavano evidenti sul manifesto del film.

Sesto Continente ha ottenuto un grande successo nella seconda metà degli anni cinquanta. Il film esce nel 1954 e racconta le gesta della Spedizione Subacquea Nazionale (Italiana) nelle acque del Mar Rosso nel corso del 1952.

La spedizione è organizzata e diretta da Bruno Vailati, in essa sono coinvolti operatori, tecnici, scienziati, giornalisti e subacquei, persone eccellenti come Raimondo Bucher, Francesco Baschieri, Gianni Roghi e Folco Quilici.

La motonave Formica, un vecchio dragamine riadattato per l’occasione, parte da Napoli e raggiunge le isole Dahlak nel Mar Rosso, qui la spedizione si divide, da una parte gli scienziati dall’altra i pescatori subacquei.

In un mondo sottomarino incontaminato i pescatori affrontano i grandi pesci del Mar Rosso in una sequenza di battute di caccia che agli occhi di oggi possono apparire anacronistiche ma che, a quel tempo, risentivano ancora del fascino della scoperta significando la necessità della lotta per la sopravvivenza in un ambiente nuovo e ostile.

Il successo di Sesto Continente deriva in buona parte dalle prime grandi riprese subacquee, effettuate, tra l’altro, con attrezzature molto sperimentali, e di conseguenza dall’essere riusciti a portare lo sguardo del pubblico nelle profondità marine, allora ancora inesplorate.

La realizzazione di questo film e l’impresa delle Dahlak sono rimaste nei cuori degli appassionati di subacquea e al primo posto negli annali delle imprese sottomarine del nostro paese.