Gregory Corso. Il poeta che non ha paura di diventare mare

“Spirito è vita scorre attraverso la mia morte incessantemente come un fiume senza paura di diventare mare”.

Gregory Corso è sepolto a Roma nel cimitero degli inglesi, assieme a Keats  e Shelley (morto in mare tra Viareggio e Livorno) i poeti che più amava, oggi il cimitero si chiama acattolico ma è sempre quello, pieno di verde, accanto alla Piramide Cestia.

Allen Ginsberg lo defininisce “un solitario, ridicolmente ignorato dai patri allori, divino Poeta Maledetto”.

Gregory Corso nasce a New York nel 1930 da giovanissimi genitori di origine italiana. La madre,  sedicenne, dopo il parto si separa dal marito e torna in Italia dalla sua famiglia. Gregory, si chiama in verità Gregorio Nunzio Corso, ha un’infanzia molto difficile, è povero, vive sulla strada, passa da un orfanatrofio all’altro e conosce i riformatori e la prigione. Viene condannato a tre anni di carcere per rapina. Nella prigione di Clinton (“salvai la mia verginità lottando”) legge qualsiasi cosa e comincia a scrivere le prime poesie, anche se aveva frequentato soltanto le scuole elementari. Quello che lascia la prigione a vent’anni è un uomo nuovo, un poeta “innamorato di Chatterton, Marlowe e Shelley”.

La poesia di Gregory Corso è un fiume in piena, un torrente istintivo che trae forza dalla lotta per la vita e dalle esperienze più dure.

“Se non c’è mai stata una casa dove andare 

c’è sempre stata una casa dove non andare

Ricordo bene come bambino scappato

dormivo nella sotterranea

e si fermava sempre

alla stazione della casa da cui scappavo

Era il dolore più amaro ah lo era”

Lo salva l’incontro casuale con Allen Ginsberg al Greenwich Village, Allen resta colpito dalle sue poesie e lo introduce nell’ambiente poetico e letterario prendendolo in qualche modo sotto la sua protezione.  Gregory Corso pubblica le sue poesie, a cominciare da “The Vestal Lady Brattle and other poems” (La vestale di Brattle), con testi dedicati alla memoria del musicista Charlie “Bird” Parker e al poeta Dylan Thomas e poi “Gasoline” dentro una raccolta curata da Ferlinghetti.

La poesia di Gregory Corso è lo specchio della condizione di marginalità dell’uomo e dell’artista, un ironico mosaico di spunti che traggono senso e significato dalla loro apparente insignificanza, il diario sincopato di una lotta infinita. Una spinta che rovescia gli equilibri della condizione umana, la staticità del moderno, gli automatismi e la routine del lasciarsi vivere.

Contro il conformismo, la conformità, la condivisione e l’appartenenza essere poeta significa agire da nomade ribelle e cercare una strada nuova nel mondo e nella vita: la propria. Una ricerca di verità, autenticità e bellezza scoperte scavando dentro i processi vitali, nei meccanismi complessi e repentini del cambiamento.

“A volte l’inferno è un buon posto – se serve a dimostrare che, esistendo quello, deve esistere anche il suo contrario, il paradiso. E cos’era questo paradiso? La poesia.”

I versi di Gregory Corso sono violenti, immediati, privi di orpelli. Colpiscono al cuore delle cose come un colpo di fucile. Mettono a nudo l’essenziale. Il ritmo è musicale, ricorda la musica nera, il jazz e ricorda anche il fluire ininterrotto dell’acqua.

Proprio come un fiume che non ha paura di diventare mare.

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2 commenti

  1. Romano Barluzzi

     /  10 settembre 2012

    Caspita, Piero!… Ogni lunedì è un lunedì migliore, con cose come questa!…

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