Peter Greenaway. The Draughtsman’s Contract

Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di ascoltare nella hall del MAXXI di Roma (il Museo delle arti del XXI secolo) un breve, ma intenso, concerto del quintetto d’archi “Architorti” gruppo musicale che dal 2004 realizza le colonne sonore dei film di Peter Greenaway. La locandina diceva che l’evento era organizzato per raccontare la bellezza: “Peter Greenaway condurrà il pubblico in una esperienza che coinvolgerà tutti i sensi, una performance in cui la sua visione di regista diventa immagine in movimento e musica”. In effetti il concerto non ha tradito promesse e aspettative, questo frammento pubblicato su You Tube ne è breve testimonianza.

L’evento dà l’occasione di scrivere di Peter Greenaway, un regista pittore o se volgiamo un pittore regista, che fin dalle origini ha messo in seria discussione le modalità tradizionali che sottengono alla costruzione del racconto cinematografico scegliendo strade nuove e preferendo la semeiotica all’approccio semiologico. Le trame e la struttura narrativa dei film di Greenaway nascono infatti dal colore, dal significato dei numeri e delle lettere dell’alfabeto, tanto per fare alcuni esempi. Ciò che interessa al regista è l’impatto visivo delle immagini sullo spettatore, l’allusione simbolica e significante dei tanti dettagli, frammenti, indizi che sono disseminati nelle diverse inquadrature.

Greenaway, in tal modo, apre il cinema alla prospettiva del sentire attraverso la visione e, così facendo, utilizzando un meccanismo generato dall’incanto emozionale conduce lo spettatore in un ambiente simbolico, un labirinto di segni e forme che non ha mai fine aprendosi, ad ogni passo, a nuove sorprese e scenari. L’interesse di Greenaway per la pittura barocca, e l’arte in genere, ha avuto senz’altro un notevole impatto sul suo modo di fare cinema, anche perché risulta abbastanza evidente il suo uso dell’arte come strumento per leggere e interpretare la realtà.

In un’intervista di qualche anno fa a un quotidiano italiano Peter Greenaway ha sostenuto: ”Ogni arte è un’esperienza educativa; i miei film sono difficili ma fanno parte di un processo d’apprendimento che incoraggia le persone a pensare visivamente. Ricerco strutture non narrative correlate alla pittura; la pittura è estremamente importante, l’occhio del pittore è lo strumento attraverso cui vediamo il mondo.”

Il film che a mio parere, senza nulla togliere agli altri, meglio rappresenta questa linea di pensiero e di realizzazioni è “The Draughtsman’s Contract”, il contratto del disegnatore, noto in Italia con il titolo “I misteri del giardino di Compton House”, un film del 1982.

La storia è ambientata nell’Inghilterra del ‘700, la moglie di un facoltoso proprietario terriero assume un pittore per riprodurre in più vedute la tenuta di Compton House al fine di regalare al marito assente, una volta tornato dal suo viaggio, i quadri. In realtà il paesaggista, Mr. Naville, è assunto anche per soddisfare le voglie sessuali della signora e successivamente della figlia. Intanto nei giardini cominciano ad apparire oggetti abbandonati e abiti appartenenti a Mr. Herbert, il padrone di casa, che vengono fedelmente riprodotti nelle opere di Naville. Un giorno viene rinvenuto in un fossato della tenuta il cadavere di Mr. Herbert, appare evidente che si tratta di un omicidio, i lavori di Naville possono essere utili per tentare di ricostruire ciò che è avvenuto. Ma non interessa a nessuno, anzi Naville diventa un testimone scomodo al punto che viene ucciso dagli stessi uomini che avevano ordito l’assassinio di Mr. Herbert e i suoi disegni distrutti.

The Draughtsman’s Contract è un’allegoria del pensiero di Greenaway. Il dettaglio, i frammenti, i simboli valgono in quanto tali più che organizzati attraverso legami che propongano un significato, anche perché quando al significato complessivo è data contezza è tardi e può essere inutile, come nel caso di Naville.

Non ha quindi ragion d’essere un vedere disgiunto dal sentire.

Gregory Corso. Il poeta che non ha paura di diventare mare

“Spirito è vita scorre attraverso la mia morte incessantemente come un fiume senza paura di diventare mare”.

Gregory Corso è sepolto a Roma nel cimitero degli inglesi, assieme a Keats  e Shelley (morto in mare tra Viareggio e Livorno) i poeti che più amava, oggi il cimitero si chiama acattolico ma è sempre quello, pieno di verde, accanto alla Piramide Cestia.

Allen Ginsberg lo defininisce “un solitario, ridicolmente ignorato dai patri allori, divino Poeta Maledetto”.

Gregory Corso nasce a New York nel 1930 da giovanissimi genitori di origine italiana. La madre,  sedicenne, dopo il parto si separa dal marito e torna in Italia dalla sua famiglia. Gregory, si chiama in verità Gregorio Nunzio Corso, ha un’infanzia molto difficile, è povero, vive sulla strada, passa da un orfanatrofio all’altro e conosce i riformatori e la prigione. Viene condannato a tre anni di carcere per rapina. Nella prigione di Clinton (“salvai la mia verginità lottando”) legge qualsiasi cosa e comincia a scrivere le prime poesie, anche se aveva frequentato soltanto le scuole elementari. Quello che lascia la prigione a vent’anni è un uomo nuovo, un poeta “innamorato di Chatterton, Marlowe e Shelley”.

La poesia di Gregory Corso è un fiume in piena, un torrente istintivo che trae forza dalla lotta per la vita e dalle esperienze più dure.

“Se non c’è mai stata una casa dove andare 

c’è sempre stata una casa dove non andare

Ricordo bene come bambino scappato

dormivo nella sotterranea

e si fermava sempre

alla stazione della casa da cui scappavo

Era il dolore più amaro ah lo era”

Lo salva l’incontro casuale con Allen Ginsberg al Greenwich Village, Allen resta colpito dalle sue poesie e lo introduce nell’ambiente poetico e letterario prendendolo in qualche modo sotto la sua protezione.  Gregory Corso pubblica le sue poesie, a cominciare da “The Vestal Lady Brattle and other poems” (La vestale di Brattle), con testi dedicati alla memoria del musicista Charlie “Bird” Parker e al poeta Dylan Thomas e poi “Gasoline” dentro una raccolta curata da Ferlinghetti.

La poesia di Gregory Corso è lo specchio della condizione di marginalità dell’uomo e dell’artista, un ironico mosaico di spunti che traggono senso e significato dalla loro apparente insignificanza, il diario sincopato di una lotta infinita. Una spinta che rovescia gli equilibri della condizione umana, la staticità del moderno, gli automatismi e la routine del lasciarsi vivere.

Contro il conformismo, la conformità, la condivisione e l’appartenenza essere poeta significa agire da nomade ribelle e cercare una strada nuova nel mondo e nella vita: la propria. Una ricerca di verità, autenticità e bellezza scoperte scavando dentro i processi vitali, nei meccanismi complessi e repentini del cambiamento.

“A volte l’inferno è un buon posto – se serve a dimostrare che, esistendo quello, deve esistere anche il suo contrario, il paradiso. E cos’era questo paradiso? La poesia.”

I versi di Gregory Corso sono violenti, immediati, privi di orpelli. Colpiscono al cuore delle cose come un colpo di fucile. Mettono a nudo l’essenziale. Il ritmo è musicale, ricorda la musica nera, il jazz e ricorda anche il fluire ininterrotto dell’acqua.

Proprio come un fiume che non ha paura di diventare mare.