Graham Sutherland. Parafrasi della natura

graham-sutherland_01_446

Il temine parafrasi (latino paraphrasis, dal greco παράφρασις, riformulazione) su Wikipedia viene associato all’atto di traduzione di un testo scritto nella propria lingua ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico).

Emerge il carattere umile dell’intervento di parafrasi, perché esso è motivato soprattutto dalla necessità di affiancare, ad esempio, “a un testo di partenza giudicato difficile una versione in prosa corrente che ne appiani le difficoltà lessicali, semantiche e contenutistiche”, rendendo quindi più facile e comprensibile un contenuto complesso.

Abbiamo già dedicato spazio all‘artista inglese Graham Sutherland, ma la raccolta di scritti contenuti nel libro “Parafrasi della natura” consente di apprezzare meglio la sua pittura e, aggiungo, anche la pittura in generale.

Le descrizioni della baia di St. Bride, della pianura e delle punte che l’anticipano e la  contengono, le escrescenze rocciose e le terrazze di Capo St. David, i paesi di case e fattorie bianco, rosa pastello, grigio azzurro e, poi, la zona a sud di questa parte del Galles, sono riflessi dell’entusiasmo e delle emozioni del pittore.

Questa è la regione dove Sutherland, a suo dire, ha imparato a dipingere. Un dipingere che non è il frutto di un’estrazione diretta dalla natura, perché non vi sono “soggetti pronti”, immediatamente trasferibili sulla tela, piuttosto materiali da archiviare nella mente, contenuti intellettuali ed emozionali da sedimentare e stagionare.

“Dapprima provai a dipingere direttamente sul posto, ma ben presto vi rinunciai. Presi allora l’abitudine di fare lunghe passeggiate immergendomi nella natura.”

Il processo creativo di Sutherland inizia con una passeggiata nella natura raccogliendo immagini, colori, forme, contrasti, dispersioni, “delle mille cose che vedo una sola giustapposizione di forme viene colta dai miei occhi come significativa”. Questo lampo, un’intuizione, porta alla parafrasi della natura, e non si manifestano conflitti tra immaginazione e realtà, solo l’umile volontà di tradurre in modo semplice l’essenza delle emozioni e  delle immagini.

Welsh Landscape with Roads 1936 by Graham Sutherland OM 1903-1980

“Lo stadio preliminare, il contatto diretto, conduce poi a un processo diverso, controllato e ordinato dalla mente. La difficoltà sta nel conservare le emozioni del primo incontro, nel comprendere che la freschezza dell’istinto è vitale, nel saper distinguere quando una cosa, vista in un momento, potrebbe diventare, attraverso un lavoro di riflessione e approfondimento emozionale – studiando e ristudiando – un’opera d’arte.”

La pittura in questo caso è una traduzione del sedimento, ammettendo che una traduzione immediata, istantanea, sul posto possa, concedendo troppo alla necessità e alla superficie, portare l’autore a una scelta affrettata destinata, inevitabilmente, a una perdita di valore.

“Quando torna nel suo studio, il pittore ricorda: i suoi incontri sono ridefiniti, parafrasati e mutuati in qualcosa di nuovo e differente rispetto all’originale, e tuttavia identico”.

In realtà, in questo procedimento di assimilazione e proposizione artistica, si avverte un grande rispetto per la natura. La natura è, di per sé, un oggetto complicato, biologicamente complesso, e la sua lettura non può limitarsi alla pura esteriorità, alla descrizione, ma deve sprofondare nella ricerca dei fattori che determinano i processi di identità, le analogie, le corrispondenze e i contrasti.

Interessante a questo riguardo il racconto di Sutherland sulla genesi di una crocifissione commissionatagli dal vicario di St. Matthew, nel Northampton.

“In autunno cominciai a pensare alla forma da dare a quest’opera; nella primavera seguente avevo ancora in mente il soggetto, ma senza aver fatto alcuno schizzo. Mi recai in campagna: per la prima volta cominciai a notare i cespugli spinosi e la struttura della punte che laceravano l’aria.”

Le punte che lacerano l’aria sono dapprima un’immagine registrata nella mente, poi lentamente entrano a far parte di un percorso emotivo che cerca di afferrare il senso di un potenziale equilibrio tra tragedia e salvezza, mestizia e felicità. Anche il contrasto, scansione,  tra l’azzurro e il nero diventa un elemento emotivo della crocifissione.

“Le spine sono nate dall’idea di una crudeltà potenziale, anzi, per me esse erano la crudeltà. Ho quindi cercato di rendere l’idea di una duplice torsione – se così si può chiamare – situando le spine in una cornice confortevole: cieli azzurri, erba verde, croci avvolte dal tepore.”

L’annullamento dell’imperfezione nell’azzurro del cielo richiama l’orrore della conformazione obbligatoria, in realtà è solo una parte del processo di trasformazione visiva di emozioni e contenuti, costantemente alla ricerca di un elemento essenziale che risponda alla ricorrente domanda sul significato recondito della rappresentazione.

Forse, un elemento è la meraviglia, l’emozione che prende, immobilizza e porta l’artista a esprimere e condividere.

“Quando dico di sentirmi immobilizzato, mi riferisco al concetto espresso dal Petrarca: Chiusa fiamma è più ardente; e se pur cresce, in alcun modo più non può celarsi.”

2013-AH-Graham-Sutherland-Header

Alexander Calder. Un taglialegna in città

alexander_calder

Qualche giorno fa, in compagnia di un amico, attraversavo un passaggio pedonale con il semaforo verde. Giunti quasi al marciapiede dall’altro lato della strada dovemmo schivare alcuni scooter che, fatta la curva, svoltavano dalla nostra parte. Uno dopo l’altro i conducenti degli scooter giungevano a ridosso del marciapiede seguendo una traiettoria ideale e, la cosa strana, è che parevano assorti in chissà quali pensieri e comunque sembravano schiavi della  loro traiettoria, del tutto incuranti che davanti a loro vi fossero delle persone.

Questo evento mi ha fatto riflettere sul movimento e su quanto oggi il movimento umano sia condizionato da impliciti automatismi piuttosto che da pulsioni naturali. Nel caso dei conducenti degli scooter essi sembravano animati da un moto automatico quasi fossero guidati da un circuito stampato e non riuscissero quindi ad ammettere eccezioni o deviazioni di sorta rispetto al loro programma di guida.

Credo che questi comportamenti siano il risultato di un progressivo e definitivo distacco dell’uomo dalla natura, per cui non conta più ciò che avviene nell’ambiente esterno ma quello che accade diventa automaticamente subalterno a ciò che vogliamo e dobbiamo fare, proprio come in un videogioco dove riusciamo ad aver ragione della complessità puntando esclusivamente su noi stessi. Quando poi, improvvisamente, ci troviamo a misurarci con le espressioni della natura, da un semplice temporale a qualcosa di più grande, ci sentiamo incredibilmente indifesi e perduti.

Non so perché ma queste riflessioni di un primo pomeriggio mi hanno fatto tornare in mente una frase di Alexander Calder, il grande ingegnere scultore, Sandy,  per gli amici e i conoscenti.

A una domanda sul suo lavoro: “Cosa ha esercitato maggiore influenza su di lei, la natura o le macchine contemporanee?” Calder ha risposto così: “La natura. In realtà non ho avuto a che fare con le macchine se si eccettuano pochi meccanismi rudimentali come leve o bilancieri. Si osserva la natura e in seguito si prova a emularla.”

Alexander Calder deve il suo successo come scultore ai mobiles e agli stabiles, i primi sono strutture mobili animate dal vento o da un motore, i secondi sono strutture fisse intorno alle quali camminare ed eventualmente anche da attraversare.

alexander-calder-mobile

“Ebbene il mobile possiede un movimento concreto in se stesso, laddove lo stabile è un ritorno alla vecchia idea pittorica del movimento implicito. Devi camminare intorno a uno stabile o attraverso di questo, laddove un mobile danza davanti a te.”

Il senso vero del mobile viene dall’energia esogena che lo scuote e lo anima, forme intagliate dalla mano dell’uomo, plastica, legno, acciaio che prendono vita assecondando il desiderio del vento, è la natura che comanda e guida la danza e la natura predilige la differenza, la disparità, i colori opposti che contribuiscono nel movimento a comporre scenari perfettamente irregolari.

“Sin dagli esordi del mio lavoro nell’arte astratta, e sebbene non fosse allora evidente, credevo non vi fosse per me modello migliore che non l’universo…Sfere di diversi formati, densità, colori e volumi, che si librano nello spazio, circondate da intese nubi e maree, correnti d’aria, viscosità e fragranze, considerate nella loro estrema varietà e discordanza”.

E’ il movimento impercettibile dei pianeti la guida di Calder e insieme l’evidenza del mistero inesplicabile dell’energia che nutre e anima l’universo. In questo contesto di enorme ampiezza Calder si presenta e agisce come un taglialegna, impresa che definisce “assai ardua quanto nobile”, perché il taglialegna è colui che incide il legno della natura, modifica lo scenario naturale, scompone le forme primigenie per produrne altre.

Le nuove forme debbono però preservare e diffondere lo spirito di quelle originarie, la stessa felicità e inquietudine, se sembrano infelici ciò non è attribuibile all’autore bensì “alla loro stessa natura, alla loro personalità”.

Calder non è un ingegnere di ponti e strutture ma semplicemente un meccanico della natura, un artista che scompone le forme e prova a riproporle in modo diverso e nuovo senza andare a modificare la loro intima essenza.

Jean-Paul Sartre così, introducendo i mobiles alla galleria Louis Carré, scrisse: “La scultura suggerisce il movimento, la pittura suggerisce la profondità o la luce. Calder non suggerisce niente: afferra dei veri movimenti viventi e li plasma. I suoi mobiles non significano niente, non rimandano ad altro che non a loro stessi: sono là, ecco tutto; sono degli assoluti”.

fish-calder2

Apologia (imprevista) del colore

night_vincent_van_gogh

Qualcuno potrebbe chiedersi perché ho ritenuto opportuno iniziare dal colore.

Perché il colore e le immagini sono centrali nella nostra vita, molto più dei suoni e di tutto il resto. Certo non possiamo dimenticare i profumi, ma anch’essi sono connessi nel ricordo a un’immagine e così diventano alimento di sensazioni che tornano in mente in modalità intimamente legate a un volto, a un luogo, a situazioni e di essi ricordiamo soprattutto l’effetto visivo.

La forza dei grandi artisti, primo tra tutti Vincent Van Gogh, è stata nella capacità di trasferire sulla tela la vita, rendendo miracolosamente vivente la tela stessa, quindi eludendo la tirannia della trasposizione stereotipata dell’immagine, evitando a priori lo standard e una sorta di implicita reificazione, attraverso un uso trasgressivo delle tecniche e del colore.

I quadri di Van Gogh sono in movimento, le spirali dei cieli e delle stelle trascinano lo sguardo dello spettatore come, poi, le onde sui campi di grano e i vortici delle acque dei fiumi. Vassily Kandinsky scrive che bisogna cercare e riconoscere la personalità delle tele e così i quadri diventano individui presenti con una loro indole che si esplica nello spazio e nel tempo.

In tal modo assistere allo spettacolo dell’arte non è contemplazione, ma è partecipazione, perché non è proprio possibile restare spettatori inerti di fronte alla rappresentazione dell’arte vivente. Però non è facile capire senza leggere e immergersi negli scritti dei pittori. L’emozione è importante perché rende robusto il ricordo ma deve essere assistita dalla migliore predisposizione della mente.

Spesso, senza volerlo, veniamo travolti dall’enfasi pubblicitaria del mercato, dall’ansia della vista e della visita, dalla necessità di poter dire che c’eravamo e questa dinamica, che nulla ha a che vedere con la consapevolezza dell’essere attraverso la comprensione dell’opera, confonde e irride il piano della percezione.

Trasforma l’opera d’arte in merce visuale, così la consumiamo in fretta, quasi ingurgitandola, perché hanno più importanza i tempi e i luoghi di una effettiva presa di conoscenza/coscienza. L’opera vivente quando è mercificata diventa opera morta. Cartolina, poster, fotografia, non sono la stessa cosa perché i colori sono diversi, amorfi, soltanto riprodotti tecnicamente come ha scritto Walter Benjamin.

richard-long-el-artista-naturaleza-L-Z4s3dL

Allora ci troviamo a camminare lungo percorsi strani, tracciati sull’erba, costeggiando pianure e boschi, o su pietraie assolate insieme a Richard Long. La natura esce dal quadro e torna a essere viva in sé, in  natura non esiste lo standard, la natura è una somma infinita di eccezioni, e sono le eccezioni a costruire il presente e il futuro, le deviazioni a produrre il nuovo e l’originale. In caso contrario sarebbe davvero inutile parlare di originale.

Anche i due eleganti signori che ballano su un tavolo, Gilbert & George, richiamano la profondità dell’essere e la necessità della deviazione che produce l’originale, sembra che suggeriscano un percorso alternativo: usciamo dalla concezione falsamente diffusa dell’opera d’arte statica, restituiamo dinamicità (vita) al processo e così mettiamo le cose a posto, forse allora qualcuno capirà.

Il giardino di Joan Mirò è molto diverso dall’orto di Bouvard e Pécuchet, perché è il campo ove nasce e si manifesta lo stupore e lo stupore è la sensazione più genuina che accompagna i primi passi verso la conoscenza. Qui non si consuma, ma si  fa propria un’immagine e con essa quell’insieme di sensazioni, profumi, emozioni che sempre la precedono e la seguono.

Ecco, il colore è il componente principale della traccia della nostra memoria.

E’ la memoria a rendere viventi persone e opere anche se esse non sono vicine e persino se non ci sono più. Un segno sulla tela o sulla roccia ha una forza evocativa superiore al suono e alla parola scritta.

Il colore e il suo effetto sulla memoria possono trasformare il consumatore da lavoratore che non sa di lavorare, come direbbe Baudrillard, cioè da semplice acquirente consumante d’immagine, a produttore consapevole di una scenografia collettiva nella quale la natura e le sue trasposizioni viventi tornano ad essere elementi essenziali della vita umana.

In questo può essere di grande aiuto la rete, perché la rete è un immenso magazzino di immagini e ricordi. E’ anche possibile che una nuova tecno-memoria si aggiunga alla vecchia, aumentandola, e possa correggere le sue défaillances, soprattutto riempiendo gli spazi e i passaggi che il recente deficit di comunicazione tra generazioni ha lasciato incredibilmente vuoti.

memoria-ram-virtuale-daniravarecords

Paul Klee. Libertà creatrice

klee.golden-fish

“Il dialogo con la natura resta, per l’artista, conditio sine qua non. L’artista è uomo, lui stesso è natura, un frammento di natura nel dominio della natura.”

Sono parole di Ernst Paul Klee pittore tedesco nato in Svizzera a Münchenbuchsee da genitori musicisti, che nel periodo della giovinezza si dedicò in egual modo alla musica, alla poesia e alla pittura scegliendo poi proprio la pittura come ambito principale di espressione.

Ritorna quindi la natura che sembra essere il tema che più attrae l’attenzione degli artisti a prescindere dal fatto che essi siano pittori, musicisti, letterati o poeti. Ed è anche una questione di posizione, luogo dal quale si guarda e si orienta, non solo lo sguardo, ma anche l’azione da sviluppare, la strada da percorrere, il modo di indagare e interpretare il quadro naturale.

Perché col tempo si è passati da un approccio assimilabile alla fotografia, una riproduzione del fenomeno naturale filtrata dall’unica ottica possibile: l’aria, a modi nuovi che prendono in considerazione non solo l’esteriorità ma anche l’interno, attraversando il campo dei sentimenti, delle impressioni e delle emozioni.

“L’artista di oggi è qualcosa di più di una perfezionata macchina fotografica, è più complesso, più ricco, più esteso. Egli è creatura terrestre e insieme creatura nell’ambito del tutto (…)” queste considerazioni portano alla mente i commenti relativi alla visione della mostra fotografica dell’Esposizione universale di Parigi del 1889 che davano per morta la pittura. Come sappiamo la pittura non è morta, anzi la fotografia ha aiutato la pittura a non accontentarsi dell’involucro ma a cercare in profondità, entrando nelle viscere dell’oggetto.

Leggere nei tratti dell’esteriore il disegno dell’interno.

Questa attività di lettura e decodifica del segno esteriore diventa studio che si avvale dell’osservazione e dell’intuizione e  riesce a portare in superficie “una chiara immagine della struttura materiale e della sua funzione”, e così, consolidandosi la capacità di intendere e interpretare la natura, si può procedere alla sua trasfigurazione attraverso diverse tecniche pittoriche, anche astratte.

Paul Klee

In questo caso è la percezione dell’interiorità del fenomeno naturale che si traduce in pittura, vedere e ascoltare ciò che a prima vista non si coglie ma alcuni segnali deboli lasciano intuire.

“In passato si rappresentavano cose visibili sulla terra, cose che volentieri si vedevano o si sarebbe desiderato vedere. Oggi la relatività delle cose visibili è manifesta, e con ciò si dà espressione al convincimento che, rispetto all’universo il visibile costituisca solo un esempio isolato e che esistano, latenti, ben più numerose verità”.

Il compito del pittore è portare l’occhio negli spazi non visibili, rappresentare l’invisibile registrando il movimento che vive sotto la crosta dell’immagine esteriore. Il contrasto dei colori nello spazio pittorico riproduce le distorsioni focali generate dal movimento e dal contro movimento, è il frutto di un approccio organico al quale non sfugge neppure la dimensione morale, la passione maschile temperata dalla calma femminile. Energie contrapposte che si scontrano e riescono a coniugarsi trovando uno sfogo e quindi un equilibrio creativo.

L’opera del pittore deve essere fedele alla natura, non cercando di copiare e riprodurre ciò che in natura appare esteriormente ma assecondando e inseguendo il movimento a spirale dei processi naturali, alla ricerca del fondo, del luogo ove è custodita la ragione del segreto, l’origine.

Il diritto al sogno e alla fantasia si traduce nel dovere della ricerca e per riuscire nell’intento, o almeno per provarci, è necessario essere liberi: dagli assunti, dai modelli e dai paradigmi, oltre ogni limite, “nel senso di una libertà che rivendica il diritto di essere mobile come lo è la grande natura”.

Arte mobile, libera e creatrice.

Klee - Insula Dulcamara

Jean Baudrillard. La sparizione dell’arte

“C’è un momento illuminante per l’arte che è quello della propria perdita. C’è un momento illuminante della simulazione, quello in qualche modo del sacrificio, in cui l’arte fa un tuffo nella banalità (Heidegger ha ben detto che il tuffo nella banalità era la seconda caduta dell’Uomo, quindi il suo destino moderno)”.

Queste righe sono tratte da un saggio breve, ma potente nell’esplicazione delle sue tesi e anche nella conclusione, “La sparizione dell’arte” di Jean Baudrillard. Baudrillard critico e teorico del postmoderno e della società dei simulacri accostabile a Edgar Morin e a Michel Maffesoli come, del resto, a Roland Barthes e a McLuhan. Fondatore della rivista Utopie ha insegnato in varie sedi universitarie a Parigi.

Righe che riportano alla mente un altro libro denso e impegnativo, non fosse altro che sotto l’aspetto della dimensione, “Parigi New York e ritorno” di Marc Fumaroli (oltre 700 pagine da leggere tutte). La caduta nella banalità nasce dalla perdita di senso e così nell’epoca del marketing e della pubblicità accade che un gesto e una carta di credito “siano sufficienti a sostituire un mobile di culto antiquato con la versione provvisoriamente più contemporanea e lussuosa”. Provvisoriamente, perché la caduta nella banalità e la perdita di senso ovviamente sono irrefrenabili e nell’ambito di questo percorso, precipizio, non esistono pause, riflessioni, ripensamenti, soltanto una caduta che prosegue la folle corsa triturando anche il senso stesso delle cose.

Alla caduta non può essere estranea l’arte, anche se recentemente ha appreso il modo di sopravvivere proprio del (o dal?) dilagare della banalità. L’arte è scomparsa ma riappare nella forma illusoria della simulazione dell’arte, un po’ come tentare il suicidio e poi non condurlo a termine, cercando attraverso l’illusione del sacrificio inattuato una forma di pubblica consacrazione, l’estensione pubblicitaria di ciò che è rimasto, appunto, che è sopravvissuto.

Andy Warhol è da esempio, in questo contesto, perché quando negli anni sessanta dipinge le Campbell’s Soups, il suo, “è un colpo brillante della simulazione e di tutta l’arte moderna in un sol colpo. L’oggetto merce, il segno merce, si trova ironicamente sacralizzato, il che è appunto il solo rituale che ci resta”.

L’arte alza gli specchi e li rivolge al mondo, decreta la sua invisibilità rendendosi trasparente, e dalla trasparenza emergono ammiccanti i simboli della società dei consumi, i feticci, le merci. Nel 1986 Warhol dipinge le Soup Boxes. “Non è più nello scalpore, è nello stereotipo della simulazione”. E’ diventato egli stesso merce, riproducendo l’inoriginale in modo non più originale. Non è più il colpo della simulazione è il colpo di grazia a se stesso.

Baudrillard usa il termine “transestetica” per definire un quadro in cui solo elementi ormai estranei all’arte possono consentirci di riflettere su ciò che ne è dell’arte stessa, della sua mutazione e della sua sparizione. E ricorre a una teoria, una microfisica delle simulazioni, allo scopo di ricostruire i diversi stadi della metamorfosi del valore nell’ambito del percorso della perdita di senso, della caduta nel banale.

Gli stadi naturale, mercantile, strutturale e infine frattale del valore. “Al primo corrispondeva un referente naturale e il valore si sviluppava in riferimento a un uso naturale del mondo. Al secondo corrispondeva un equivalente generale e il valore si sviluppava in riferimento a una logica della merce. Al terzo corrisponde un codice e il valore si dispiega in riferimento a un insieme di modelli. Al quarto,(…) stadio irradiato del valore non ci sono più riferimenti, il valore irradia in tutte le direzioni, (…) per pura contiguità”.

Un’epidemia del valore che conduce alla generale smaterializzazione dell’arte, l’arte sopravvive solo come idea. Stereotipo. Le opere d’arte sono divenute idee, segni, allusioni, concetti parafrasando le dinamiche pubblicitarie e la diffusione virale di immagini e messaggi.

Quindi l’arte è scomparsa, non c’è più, è stata una parentesi nella storia dell’Uomo?

“Who knows?” Chissà? Non possiamo saperlo.

Joan Miró. Lavoro come un giardiniere

E’ bello leggere gli scritti di pittori perché la loro scrittura è diretta, scevra d’impronte stilistiche o atteggiamenti di maniera, pratica e materiale come l’impasto del colore, riportando semplicemente ciò che si vuole rappresentare in un percorso immediato e autentico.

La pittura trasferisce su tela il prodotto combinato del lavoro dello sguardo e della mente, attraverso mani più o meno abili, che fungono comunque da strumenti. Il risultato può essere un nuovo mondo o una serie di universi magici da guardare ed esplorare a caccia di personali, talvolta intime, emozioni.

Anche nella scrittura il pittore dipinge e le sue parole creano e propongono immagini.

“Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l’ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado. Le cose seguono il loro corso naturale. Crescono, maturano. Bisogna fare innesti. Bisogna irrigare, come si fa con l’insalata. Maturano nel mio spirito.”

La passione di Joan Miró per la pittura emerge con forza dalle sue carte, è una pulsione fisica, un impeto che lo spinge a creare l’opera, ricerca della soddisfazione dell’istinto, un bisogno fisico prima ancora che mentale, perché il quadro è un organismo vivente, un insieme nel quale mobilità e staticità devono trovare un equilibrio formale.

Poi c’è l’amore per le cose, amore che si nutre dello stupore generato dalla loro intrinseca immobilità: una bottiglia, un sasso, un bicchiere, oggetti apparentemente trascurabili evocano al contrario grandi spazi nei quali si producono movimenti inarrestabili, moti indefiniti nello spazio e nel tempo. La pittura è un processo che a partire dalla staticità della tela e delle forme riprodotte crea movimento e vita, miracoli, magie.

L’imprevisto è un elemento di discontinuità creativa, una scossa affascinante, come il contrasto tra una linea e una forma di grandi dimensioni. Un quadro, anche per chi lo osserva, deve essere ricco di imprevisti, perché non conta il quadro in quanto tale ma piuttosto l’effetto che ottiene.

“Più che il quadro in se stesso, quello che importa è ciò che sprigiona, ciò che diffonde. Poco importa che il quadro sia distrutto. L’arte può morire, quel che conta è che abbia sparso dei semi sulla terra.”

La fecondità del quadro, l’opera come seme sono immagini che riportano alla semplicità della campagna, alle leggi della terra. Ricordo un seme africano raccolto sulla battigia di una spiaggia equatoriale e conservato con cura. Qualche settimana dopo, nel buio di una notte invernale resa tiepida dal metano, esplose con un fragore di raffica, spargendo una miriade di piccoli semi sul pavimento di parquet. Le opere di Miró sono così, pronte ad esplodere, capaci di diffondere ovunque i semi dell’immaginazione.

Non importa conoscere il nome dell’autore, egli può essere anonimo, perché un gesto individuale tra milioni di gesti è di per sé anonimo. E, talvolta, l’anonimato consente di raggiungere l’universale.

C’è una gioia tragica nel cercare “il rumore celato nel silenzio, il movimento nell’immobilità, la vita nell’inanimato, l’infinito nel finito, le forme nel vuoto e me stesso nell’anonimato”, una gioia che trae linfa e vigore dai contrasti, dalla negazione della negazione e dal positivo dell’affermazione che ne risulta.

Henry Miller. Dipingere è amare ancora

Come è il mondo e come sono le cose viste dallo sguardo di un pittore?

Un universo parallelo che dà importanza e significato al particolare, rendendolo talvolta assoluto, attraverso l’emozione della scoperta e della sorpresa, un mondo nel quale regna un sentimento intimo e autentico: lo stupore.

Henry Miller, americano, famoso autore dei “Tropici”, “Tropico del Cancro” e “Tropico del Capricorno”, scritti combinando insieme spunti autobiografici, critica sociale e riflessioni filosofiche e usando un genere di scrittura di stampo surrealista, è stato anche pittore, pittore di acquerelli.

Dipingere è amare ancora” (merita vedere il filmato) è il racconto della sua grande passione per la pittura: ”levarsi al primo fiorire del giorno per lanciare uno sguardo furtivo agli acquerelli fatti il giorno prima, o persino poche ore prima, come lo sguardo furtivo lanciato all’amata immersa nel sonno”. Solo chi è stato travolto dal fuoco ebbro della pittura conosce e afferra appieno il senso di questi istanti: sul cavalletto c’è l’espressione estetica del giorno o della notte, una parte di noi, adesso è lì e l’autore ha il privilegio di osservarla, valutarla, prima di separarsene per sempre consegnandola agli sguardi degli altri, ai loro innumerevoli occhi.

I pittori hanno un’origine “materica” perché la loro arte nasce dallo stretto contatto con l’essenza delle cose: carne, sassi, acqua, mare, cielo e la mescolanza degli elementi, filtrata dalle varietà di colore, è parte di un processo che rivisita i caratteri basici del reale, scomponendoli e riassemblandoli, grazie al contributo dell’immaginazione.

Un’altra emozione, riflesso del perdurante innamoramento, nasce vedendo i propri quadri vestiti, incorniciati, appesi al muro, meglio gli uni accanto agli altri, quadri completi, a modo loro definitivi, ai quali, solo il pittore, sa di aver consegnato una parte di sé.

Il rapporto di estraneazione dell’autore con l’opera scritta, letteraria o poetica, è forte grazie all’intermediazione del linguaggio, forse solo i caratteri delle lingue orientali, che sono anche immagine e pittura, si differenziano. Il disegno del testo occidentale, invece, è uniforme, monotono, stancamente lineare: “Esiste al mondo uno scrittore che si alzi all’alba per leggere le pagine del suo manoscritto? Assurda idea”, scrive Miller, sottolineando il senso di logoramento che viene costringendo l’immaginazione nella gabbia angusta della scrittura.

Nella scrittura non c’è una tela da completare, un oggetto da finire, il libro va letto e il tempo della lettura è un diluente, scioglie e separa le emozioni. Il quadro invece le consegna al destinatario tutte insieme, senza pietà.

L’acquerello non è una tecnica facile, i maestri sono gli orientali, i bambini e i folli, perché spesso si dipinge per scongiurare la pazzia, non è semplice questa pittura che si esegue con velature successive rendendo complicato correggere gli errori. Miller vi si dedica completamente, da quando è giovane, ragazzo e provava a copiare un vaso senza riuscirvi, “sono certo che questa esperienza, con il senso di fallimento, o di inadeguatezza che l’accompagnava, mi fu di grandissimo aiuto”.

Spesso l’errore aiuta a trovare una strada nuova, oppure a scoprire che ciò che sembra sbagliato è la cosa giusta, un nostro modo (mondo) nuovo da esplorare e sviscerare.

“Raramente ci accorgiamo di quanto il negativo serva a produrre il positivo, il male a far scaturire il bene”.

Roland Barthes. L’impero dei segni

Anni fa, lasciando un sentiero appena segnato, ho avuto l’occasione di immergermi nella foresta equatoriale. Una breve escursione di cui però ho un ricordo vivissimo perché carica di suggestione e di emozioni. Il luogo era selvaggio e incontaminato, nessuna traccia di presenza umana, solo l’evidenza di una pura espressione naturale. Se qualcuno mi domandasse, a distanza di tempo, cosa mi avesse colpito maggiormente risponderei: la perfezione.

C’era infatti nel paesaggio che mi circondava un’impronta immanente, una sorta di inaspettato equilibrio della cosa in sé, la prova concreta e visibile del lavoro della natura nell’accezione di organismo vivente, di sistema cibernetico in grado di autoregolarsi perfettamente. Quelle immagini sono rimaste vive nella mia mente e con esse, oltre alla evidenza della grandiosità dell’ecosistema anche una sensazione sottile, e apparentemente inspiegabile, di vuoto.

“L’impero dei segni” è un taccuino di appunti di viaggio, riflessioni apparentemente disgiunte sul paese della scrittura, il Giappone, messo insieme da Roland Barthes allo scopo di perlustrare e provare a capire un mondo diverso dal nostro. Conoscere il mondo “laggiù” attraverso il suo simbolismo e le significanze superando i luoghi del comune pensare, quindi categorie come il capitalismo, la tecnologia, l’assimilazione al modello americano e via dicendo.

I modi di leggere questo libro sono diversi: dall’inizio alla fine, come banalmente ho fatto io; in modalità casuale, perché ogni capitolo ha una sua dimensione compiuta; oppure cominciando dai segni, noi diremmo dalle immagini, il libro è ricco di immagini, simboli, sguardi, il bianco e nero degli occhi, il seppia del giardino zen.

Iniziando dai segni è possibile cogliere con una certa immediatezza il senso di spaesamento che invece emerge progressivamente dalla lettura: l’impero dei segni è un mondo senza centro, appare ordinario, futile come l’haiku, è linguisticamente parsimonioso perché tende alla forma esatta. La pittura, la scrittura e anche il gioco si esplicano e si esauriscono nella precisione di un movimento, l’abilità è immediata e definitiva, senza correzioni possibili.

I segni alludono immediatamente al motivo del loro esistere, l’arte giapponese è intimamente legata alla natura e Roland Barthes così commenta l’immagine spoglia e essenziale del giardino zen: ” Nulle fleur, nul pas: Où est l’homme? Dans le trasport des rochers, dans le trace du ràteau, dans le travail de l’ecriture.”  Il segno dell’uomo è una essenza esteriore, anch’esso periferico rispetto alla dimensione pregnante della natura.

Anche la moglie del generale Nogi, vincitore dei russi a Port-Arthur, ha piena contezza di non essere al centro. La sua dimensione umana è consapevolmente periferica, infatti si fa fotografare subito dopo aver deciso, insieme al marito, di suicidarsi per onorare la morte dell’amato imperatore. “La moglie del generale Nogi ha deciso che la Morte era il senso, che l’uno e l’altro si devono congedare nello stesso tempo e che pertanto, neppure con il volto, bisogna parlarne”.

E’ l’imperatore stesso a evocare il vuoto e a rappresentare l’assenza del centro risiedendo invisibile in un luogo “interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua”. Un imperatore che non si manifesta, un soggetto vuoto attorno al quale “l’immaginario si dispiega circolarmente”.

La natura ritorna con il cibo, insieme all’assenza di percorsi prestabiliti, senza un inizio e una fine. I vassoi colorati sui quali sono disposti piccoli frammenti di carne e pesce, piccole zuppe da sorbire quando si vuole, cibo che “collega in un’unica temporalità il tempo della sua preparazione e quello della sua consumazione”, completamente in linea con la dimensione organica del processo vitale.

E noi, curiosi, grazie ai bastoncini partecipiamo a questo banchetto colorato e minuzioso sentendoci  piccoli volatili imbeccati dalla madre. Un gesto, primitivo, materno “che accompagna instancabilmente il gesto dell’imbeccata, lasciando ai nostri costumi alimentari, armati di frecce e di coltelli, il gesto della predazione.”

Graham Sutherland. Estetica della sopravvivenza

Le immagini e i colori di Sutherland hanno sempre un grande effetto.

I verdi, in particolare, e le nuances del verde che, prendendo spunto dal nero, sfumano lentamente fino a esaurirsi dentro trasparenze acquatiche. Spesso il contesto è caratterizzato da piccole gallerie naturali, prospettive rubate a labirinti di rami contorti, canne di bamboo, cespugli spinosi. In fondo, in profondità, sotto una lama di luce, appaiono leggere figure umane, simulacri erranti che rammentano l’esistenza dell’uomo e affermano la necessità di resistere alla forza primigenia del naturale ma anche, e soprattutto, alle inclinazioni autodistruttive della nostra specie.

I quadri di Sutherland sono una sorta di punto centrale nel quale trovano raccordo pulsioni naturali e istinti di sopravvivenza, rappresentano infatti una situazione di equilibrio da cui però traspaiono ed emergono le angosce e la nostra paura di vivere.

Tra il 1940 e il 1945, Sutherland ha fatto parte di una speciale divisione dell’esercito inglese denominata “Artists Scheme” con l’incarico di documentare la guerra attraverso le opere d’arte. Per questa sua singolare attività bellica è stato insignito della decorazione Order of Merit.  Ha operato soprattutto sul fronte interno, raffigurando soggetti come le miniere  in Cornovaglia,  i danni dei bombardamenti su Londra e nel Galles meridionale e, poi, i danni procurati dalla RAF nella Francia occupata.

L’esperienza angosciosa della guerra, le distruzioni inflitte alle persone e all’ordine naturale delle cose, unitamente al forte interesse per l’opera pittorica e poetica di William Blake, sono alla base dell’impronta naturalistica che Sutherland è riuscito a dare al surrealismo.
La rappresentazione surreale di una natura contorta, spinosa, ove l’unico sintomo dell’ospitalità è il colore, è il prodotto di una costante ricerca tesa a illustrare lo stato della metamorfosi che confonde di continuo realtà e immagine, uomo e natura.
Anche il riferimento a Blake non è affatto casuale, William Blake il poeta romantico, l’uomo che scrive i seguenti versi: “Tigre! Tigre! Divampante fulgore nelle foreste della notte, quale fu l’immortale mano o l’occhio che ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?”, l’artista che proclama l’assoluta compenetrazione tra esistenza e immaginazione, il liberatore della percezione dalla tirannide dei limiti imposti dalla società: aprite “the doors of perception”.
Tutto concorre alla costruzione di visioni oniriche, marcate dalla forza della fantasia, rappresentazioni di percorsi che mescolano spunti paradisiaci con il loro opposto, anche se in fondo al tunnel, non importa se verde, c’è sempre l’uomo, la dolorosa necessità di esistere e, quindi, l’obbligo di ricorrere alle più recondite energie per tentare di sopravvivere.

Man Ray. L’etoile de mer

L’etoile de Mer (“La stella di mare”) è un cortometraggio nato dalla collaborazione tra Man Ray e il poeta surrealista Robert Desnos. Gli attori sono Kiki de Montparnasse (Alice Prin) e André de la Rivière. Le immagini e la messa a fuoco appiano distorte a causa dell’uso di specchi e un filtro bagnato.

Ne viene un film introspettivo, per molti versi sensuale, visibile peraltro tramite il link sottostante.

Un percorso velato, apparentemente subacqueo, nel quale le parole si mescolano alle immagini e ogni immagine è un’opera d’arte. Un uomo incontra una donna, lei si spoglia per lui, ma lui se ne va. E’ più interessato al suo fermacarte. Un vaso di vetro contenente una stella marina. La stella si muove lentamente, un movimento primordiale e affascinante. Le figure umane, al confronto, sono ombre e segni sottratti a una tela espressionista. Forse perché sono forme perdute nel deserto dell’eterna oscurità. Gli oggetti invece sembrano ingranaggi di un meccanismo dotato di energia immanente, una rivelazione cibernetica. Se i fiori fossero di vetro probabilmente andrebbero a rompersi come un amore finito o mai cominciato. L’amore di una donna sincera, bella, bella come un fiore.

Man Ray (1890 – 1976) è stato un importante artista americano, vicino ai movimenti Dada e Surrealista. Autore e regista di cortometraggi di avanguardia, come Le Retour à la Raison (2 min, 1923), Emak-Bakia (16 min, 1926), L’Étoile de Mer (15 min, 1928); e Les Mystères du Château du Dé (20 min, 1929). In realtà si chiamava Emmanuel Radnitzky, era nato a Philadelphia in Pennsylvania, e cresciuto a Brooklyn, New York, figlio di ebrei russi. Sin da giovanissimo aveva mostrato una forte inclinazione per l’arte. Nel 1911, la sua famiglia aveva cambiato il cognome in Ray a causa del diffuso antisemitismo. Emmanuel,  “Manny” per nickname, diventa Man Ray.

Nel 1915, espone alla prima personale dipinti e disegni. La sua prima opera proto-Dada, un assemblaggio dal titolo “Self-Portrait”, viene esposta l’anno seguente. A partire dal 1918 produce le prime fotografie importanti.

Durante il soggiorno a New York City, fonda, con l’amico Marcel Duchamp, il gruppo americano del movimento Dada, nato in Europa in contrapposizione con i canoni dell’arte tradizionale. Ma l’America e New York non mostrano molto interesse per l’avanguardia dadaista, “Dada non può vivere a New York”, così Man Ray si trasferisce in Francia, a Parigi, nel quartiere di Montparnasse, a quei tempi culla della creatività artistica.

A Parigi si innamora della cantante francese Kiki (Alice Prin), “Kiki de Montparnasse”, che diventa uno dei suoi modelli fotografici preferiti. Nei vent’anni che seguono Man Ray rivoluziona l’arte della fotografia. James Joyce, Gertrude Stein, Jean Cocteau posano nel suo studio fotografico. Con Jean Arp, Max Ernst, André Masson, Joan Miró e Pablo Picasso, partecipa alla prima esposizione surrealista alla Galleria Pierre di Parigi nel 1925.

Nel 1934, l’artista surrealista Meret Oppenheim, nota per la sua tazza da tè coperta di pelliccia, posa per Man Ray che la ritrae nuda, in piedi e in altre posture. Insieme alla fotografa surrealista Lee Miller, sua amante e assistente, Man Ray sperimenta innovative tecniche fotografiche come la “solarizzazione” e i “rayographs”.

Nel 1946 si sposa con Juliet Browner, affascinante modella, soggetto di molte sue foto. Dopo alcuni anni trascorsi negli Stati Uniti, a Los Angeles, in California fa il definitivo ritorno a Montparnasse.

E’ sepolto nel locale cimitero.

Il suo epitaffio recita: “unconcerred but not indifferent”, incurante ma non indifferente.