Paul Gauguin. Noa Noa

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Tra le righe di Noa Noa, in trasparenza, emerge l’immagine sfuocata di Vincent Van Gogh, non una semplice allusione ma una presenza impalpabile che si agita come uno spettro inquieto nel desiderio di Paul Gauguin di scoprire e vivere una vita originale, diversa da quella vissuta.

Ad Arles, nell’atelier du sud, Vincent aveva mostrato all’amico la sua terribile verità, non era un pittore normale ma un uomo capace di cogliere l’energia della natura e di riportarla su tela. Il suo sguardo riusciva a catturare i processi viventi proprio come una moderna telecamera e poi a riprodurli sequenza dopo sequenza.  Oggi si direbbe in realtà aumentata, perché un girasole impiega alcuni giorni a fiorire e a sbocciare e noi siamo in grado solo di coglierne la forma momentanea non l’energia e il movimento. Vincent invece poteva, quella era la sua forza e al tempo stesso la sua condanna.

Catturare il movimento significa anche constatare il processo di disfacimento delle dinamiche vitali, gettare lo sguardo non tanto sull’attuale stato dell’essere ma piuttosto sul futuro e, al tempo stesso, riuscire a cogliere la differenza e anche il segno marcato della progressiva disgregazione.

Lo sguardo di Van Gogh andava dritto al confine tra la vita e la morte e così, sul proscenio dell’annullamento, l’uomo Vincent faceva a pezzi le cose e i corpi, a cominciare dal suo.

Dopo quella terribile liaison Gauguin aveva il forte bisogno di ricominciare, in qualche modo di ripartire da zero, come pittore ma soprattutto come uomo.

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Noa Noa è il diario di una rinascita, della scoperta della purezza della vita fuori dalle convenzioni della civiltà occidentale, un ritorno a un mondo antico ove vivono divinità con nomi di rocce e di animali, dove l’amore e l’amicizia sono doni e non un prestito a titolo oneroso.

“La sera a letto parliamo a lungo e spesso con grande serietà. Cerco nell’anima sua bambina le tracce del passato lontano, socialmente morte, e le mie ricerche trovano risposta. Forse gli uomini, sedotti dalla nostra civiltà e asserviti alla nostra conquista, hanno dimenticato. Gli dei d’un tempo si sono assicurati un posto nella memorie delle donne.”

La vita e i dialoghi con Tehura, la sua giovanissima compagna tahitiana, portano Gauguin alla scoperta di un mondo che sembrava scomparso, lentamente e in modo inconsapevole riaffiora un sentimento di libertà profonda.

“E non ho più coscienza dei giorni e delle ore, del male e del bene. La felicità è totalmente estranea al tempo che ne sopprime la nozione e tutto è bene quando tutto è bello.”

Scrive poco di pittura, ma appare evidente quanto sia importante per la sua vita e quindi anche per la sua pittura questo mondo antico di bellezza e paure irrefrenabili, in cui l’uomo e la donna sono dati alla natura e la natura ne dispone.

“Tehura era a momenti seria e amabile, a momenti folle e frivola, due esseri in uno, molto diversi tra loro che si succedevano all’improvviso con sconcertante rapidità. Non era affatto mutevole, era doppia: il bambino di una razza vecchia.”

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Charles Cros. La grande visione

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Charles Cros è un autore poco conosciuto ma senza dubbio una delle personalità più straordinarie ed eclettiche che abbiano animato la vita culturale della Francia dell’ottocento.

Ha pubblicato alcune raccolte di poesie e nel 1888 il breve poema “La Vision du Grand Canal Royal des Deux Mers” ottenendo poco successo, a parte qualche rappresentazione brillante nei teatri di allora, comunque l’aspetto interessante della sua personalità creativa è stato l’aver spaziato dalla pittura, alla fotografia, sino ai prodromi delle tecniche audio foniche.

Significativo il suo percorso formativo e scientifico. Inizia gli studi di fisica e chimica, lasciati successivamente per dedicarsi alle attività letterarie. Nel 1869 pubblica un trattato dal titolo: “Solution générale du problème de la photographie des couleurs” dedicato allo sviluppo della fotografia a colori, nel quale spiega come l’uso di filtri in vetro di differenti colori rosso, giallo e blu poteva consentire di riprodurre i colori originali della scena fotografata. Purtroppo nello stesso momento un altro studioso, Louis Ducos du Hauron, presentava proposte molto simili e Cros non aveva  difficoltà a concedergli il primato dell’invenzione.

Come inventore Cros non può dirsi fortunato, infatti è ricordato soprattutto per aver quasi inventato il fonografo. Pochi, a quel tempo, avevano pensato di creare un apparecchio in grado di registrare e riprodurre suoni, così inventa  il “Paleophone” (Voix du passé), e nel 1877 lo presenta all’Accademia delle Scienze di Parigi con una lettera che spiega il suo funzionamento. L’anno successivo però Thomas Edison brevetta negli Stati Uniti il suo prototipo.

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Un’altra passione di Cros erano i pianeti e le stelle, avendo notato punti di luce su Marte e Venere, si era convinto che fossero gli indizi della presenza di grandi città evolute e per tale ragione aveva ripetutamente chiesto al Governo francese di poter sviluppare sistemi di comunicazione visiva che potessero connettere il genere umano con quelle civiltà aliene e sconosciute.

L’aspetto sul quale però è opportuno riflettere è il senso complessivo della ricerca di Cros, un poeta che due secoli orsono prova a mettersi in gioco usando quelle che oggi chiameremmo le nuove tecnologie, un uomo che pur avendo i piedi nell’ottocento proiettava la mente nei secoli successivi.

Il poema “La Vision du Grand Canal Royal des Deux Mers” mantiene intatto il valore di questa ricerca antero orientata e, titolo compreso, è una rappresentazione di un grande spettacolo marittimo e terrestre, un incontro tra culture, profumi e odori, un inno prematuro alla multiculturalità.

“…L’aurore étend ses bras roses autour du ciel.
On sent la rose, on sent le thym, on sent le miel,
La brise chaude, humide avec des odeurs vagues,
Souffle de la mer bleue oh moutonnent les vagues.
Et la mer bleue arrive au milieu des coteaux;
Son flot soumis amene ici mille bateaux :
Vaisseaux de l’Orient, surchargés d’aromates,
Chalands pleins de mais, de citrons, de tomates,
Felouques apportant les ballots de Cachmir,
Tartanes où l’on voit des levantins dormir….”
 

Le navi di Cros sono proprio come un ricco sciame di api, portano il grano ai paesi che ne avranno bisogno in futuro e in tempi che si preannunciano difficili. Sono macchine efficienti e invincibili che collegano le terre e il poeta moderno si trova ad esplorare il mondo con loro, prova a usarle e a trasformarle in strumenti poetici. Non a caso Apollinare ne “L’Esprit nouveau et les Poètes” scrive: “Les poètes veulent dater la prophetie, cette ardente cavale que l’on n’a jamais maitrisée. Ils veulent enfin, un jour, machiner la poèsie comme on a machiné le monde.”

Cros, invece, aveva capito che l’ingegneria del mondo, presto, avrebbe fatto volentieri a meno della poesia.

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Everett Ruess. Nemo 1934

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Alcuni anni fa il New York Times  ha dedicato un lungo articolo a Everett Ruess.

Un giovane esploratore degli inizi del secolo scorso, un idealista di vent’anni la cui scomparsa nel 1934 è ancora oggi considerata uno degli strani misteri del grande ovest americano.

Everett Ruess era un poeta, un pittore e intratteneva relazioni con importanti fotografi statunitensi dell’epoca, tra cui Dorothea Lange, la famosa fotografa documentarista, e Ansel Adams. Aveva solo 20 anni quando si allontanò nel deserto del sud ovest, con due asini e un quaderno, scomparendo per sempre.

Sono nate molte ipotesi, potremmo anche scrivere leggende, intorno all’accaduto: alcuni hanno parlato di un possibile annegamento nel fiume Colorado, altri di una caduta accidentale in un crepaccio, altri ancora di una fuga per amore conclusa confondendosi in una comunità indigena, quella Navajo, c’è anche chi ha parlato di omicidio ad opera di un serial killer che agiva da quelle parti.

Recentemente, nella riserva indiana Navajo a sud dello Utah, sono stati trovati resti umani che in un primo momento gli scienziati dell’Università del Colorado, sulla base di analisi forensi e test del DNA, avevano attribuito a Everett Ruess. Poi la versione è cambiata, le stesse ossa pare non fossero compatibili con le caratteristiche fisiche del ragazzo ma piuttosto con quelle di un indiano della riserva.

Rimane il mistero, ma restano comunque chiare tracce dell’attività poetica di Everett e alcune sue incisioni che raccontano di un amore travolgente per la natura, forse un amore talmente forte da spingerlo ad annullare la sua identità mescolandosi con la cosa selvaggia.

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“Non sono ancora stanco della vita selvaggia, anzi apprezzo sempre più la sua bellezza e l’esistenza errante che conduco. Preferisco la sella al tram e il cielo stellato al soffitto, preferisco il sentiero oscuro e difficoltoso verso l’ignoto alla strada asfaltata, e la pace profonda del selvaggio allo scontento generato dalle città.”

E’ questo il passaggio che colpisce la nostra immaginazione e spinge a formulare una domanda: cosa porta un giovane uomo a isolarsi al punto tale da decidere di perdersi per sempre?

La questione ha strette relazioni con il concetto di identità, anche nella scelta di Henry David Thoreau è possibile cogliere lo stesso elemento, in quel caso il rifiuto di una condizione umana artefice di un sistema di produzione industriale che la rende schiava, prima in fabbrica e poi nelle vesti di consumatore. All’identità dell’uomo industriale o post industriale si contrappone l’identità dell’uomo naturale, l’uomo che sta con e nella natura e non l’uomo che crede di potersi realizzare contro la natura.

“La vita che conduce gran parte della gente mi ha sempre lasciato insoddisfatto e ho sempre desiderato vivere più intensamente e con pienezza.”

Sono proprie di questi tempi la discussione sugli effetti negativi di un secolo, il novecento, sulla sostenibilità del pianeta e le polemiche sul ruolo dei geometri e degli ingegneri nella cementificazione del territorio e la distruzione del paesaggio.

Il senso del messaggio di Everett Ruess, forse, è solo quello di aver dissentito con largo anticipo con un processo di cui evidentemente, come poeta e pittore coglieva i segnali deboli, la sua scomparsa quindi è la metafora della scomparsa di un tipo di uomo, l’uomo naturale, un’uscita di scena silenziosa e rispettabile, molto simile a quella degli antichi Dei.

“La bellezza intorno a me è sufficiente.”

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Jean Clair. Medusa


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L’immagine della spaventosa bellezza androgina di Medusa creazione di Tonino Cortese, noto scultore lucano al quale è caro il mito greco, è forse il modo migliore per introdurre alcune riflessioni sull’originale contributo di Jean Clair, intitolato appunto Medusa.

Chi era la Medusa di antica memoria? Un mostro, una delle tre Gorgoni.

Gli uomini che la incontravano e incrociavano il suo sguardo erano trasformati in pietra. Perseo l’avvicina dormiente e la uccide decapitandola, usando lo scudo come specchio per respingere l’aggressione dello sguardo.

Questo riporta il mito. Jean Clair invece elegge la Medusa a simbolo di un mondo arcaico, divinità che incarna il disordine e il caos e rimanda “come Artemide e Dioniso a quei periodi di oscillazione tra cultura e barbarie, vita e morte” che sempre hanno contraddistinto la storia umana, anche se poi annota come l’arte, nel tempo, abbia contribuito a rendere il suo aspetto esteriore più umano, quasi dolente, una sorta di antropomorfizzazione del mostro, un modo per rendere il suo ricordo piacevolmente neutrale.

Medusa è invece la rappresentazione della natura, delle sue forze più oscure e ostili al genere umano, e quando le epoche perdono il filo della ragione, appare nella sua versione originaria e terrificante.

“Non si tratta più di antropomorfizzare la natura, bensì di affrontare la naturalizzazione dell’uomo. Non è più l’uomo a guardare la natura e ordinarla: è la natura in quanto radicalmente altra dall’uomo, a guardarlo e pietrificarlo, a trasformarlo in foglie, fronde, fiori, ghiaia, rocce.”

Questo è il passaggio ove conduce lo sguardo di una Medusa improvvisamente ritrovata e, anche, forse, un tema di riflessione sul perché oggi, ogni volta che subiamo l’effetto di fenomeni atmosferici, inevitabilmente affondiamo.

La razionale e pacata serenità con la quale, in passato, affrontavamo gli eventi straordinari ha lasciato il posto all’ansia verso le manifestazioni del prevedibile ordinario e anche se esse sono preannunciate da accurate prescrizioni provocano apprensione.

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Le ragioni sono molte, e non si sbaglia a scrivere che in noi sia tornata la paura del naturale, anche perché l’ordine prodotto dal lavoro dell’uomo si è dimostrato apparente. Le campagne coltivate sembrano composizioni geometriche, i fiumi domati dalla pulizia del cemento, i laghi contornati da dighe, e proprio quelle geometrie, ordinando il presunto caos preesistente, hanno reso possibile la definitiva scomposizione della certezza, tramite alluvioni, esondazioni, terremoti, smottamenti, incendi.

Lo sfruttamento della natura non poteva essere infinito, l’uomo ha scelto di allontanarsi dalle campagne, dai boschi e dalle foreste, la paura è solo un dolce richiamo dell’ancestrale appartenenza.

“Il mondo moderno, come avevano scritto Nietzsche e Schopenhauer, rimane abitato dal ricordo, tenace come un rimorso, dei demoni e degli dei; è compito del poeta, del pittore o del filosofo, resuscitarne la presenza.”

Non è opportuno uccidere il mostro per paura di specchiarsi in lui, facendolo si finisce per uccidere noi stessi, come rammenta il ritratto di Dorian Gray, ciò che talvolta pare mostruoso è solo un’altra faccia, quella oscura, dell’azzurro del cielo, quindi, semplicemente, il prezzo da pagare alla bellezza.

Jean Clair racconta che i contemporanei di Jackson Pollock, “giocando sull’omofonia del suo nome e della sua tecnica con il nomignolo del celebre assassino londinese Jack The Ripper (Jack lo squartatore), l’avevano soprannominato Jack The Dripper (Jack lo sgocciolatore).”

Una battuta d’atelier che rivela il disagio della civiltà verso un’arte che allude al movimento e ai gesti della natura, ma anche il disagio dell’arte stessa per il degrado moderno della sua immagine.

“Il dripping di Pollock non è altro che il sangue gocciolante della testa mozzata di Medusa che disegna l’aleatoria figura della nostra perdizione.”

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Marino Magliani. La spiaggia dei cani romantici

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Negli anni ottanta eravamo tutti un po’ reduci, il decennio precedente si era chiuso con il piombo e il sangue e nessuno aveva più voglia di pensare e credere al mito di ottobre, tanto meno quelli che avevano scelto la strada più facile, la socialdemocratica applicazione delle magnifiche sorti carrieristiche dei padri sessantottini.

In Italia avevamo appena avuto gli anni di piombo, alcuni ragazzi erano morti, altri avrebbero trascorso lunghi periodi nelle patrie galere; in Argentina era successo di peggio, una generazione bruciata e buttata ai pesci e chi si era borghesemente distinto, massacrato dai Gurkha della Regina nelle trincee di Port Stanley Falkland islands o Puerto Argentino Malvinas. Laggiù alla sporca guerra dei desaparecidos era succeduta la guerra stupida delle Falkland.

A proposito. Ricordo a Milano una manifestazione, di ciò che rimaneva della cosiddetta sinistra rivoluzionaria, a favore delle Malvinas Argentinas. Mi ero chiesto, ma non l’ha decisa la giunta militare questa guerra? I Videla, i Viola, i Galtieri gli stessi che hanno ucciso ventimila persone come voi? La risposta, direbbe Bob Dylan, si è persa nel vento, il fumo del passato.

Torniamo agli anni ottanta insieme a Marino Magliani e al suo bel libro La spiaggia dei cani romantici. C’è Italia nel libro, terrazze liguri di confine con l’Appennino alle spalle, profumi di macchia mediterranea, anche Argentina, una terra da lasciare e poi ritrovare forse famosi, c’è la Costa Brava e quindi la Spagna, precisamente Lloret de Mar, comune della provincia di Girona, Catalogna e infine l’Olanda, dove Marino vive.

I protagonisti sono i Chicos piola, splendidi ragazzi che animano la vita notturna della località balneare, sono i promoter delle discoteche, gli animatori turistici, in generale tutti componenti del mondo votato al divertimento e all’eccesso che proprio in quegli anni finisce di essere semplice svago e diventa industria.

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Improvvisamente e senza far rumore, il pensiero e le idee utopiche lasciano spazio ai corpi, è il corpo il grande protagonista degli anni ottanta, e chi, come noi, a quel tempo, era giovane prova ancora l’ebbrezza della liberazione, un viaggio senza limiti, attraverso se stessi, alla scoperta di chi eravamo davvero.

Così i movimenti inconsulti delle notti, il sonno complice negli anfratti delle rocce, la sabbia tra le dita dei piedi e sulle mani diventano colla che si attacca alla vita e alla vita finisce per dare più significato del rumore, in buona parte subito, del decennio precedente. Accade, che in quella presunta follia collettiva, giovani uomini e donne si amino e ciò, che al momento, pare come un fatto episodico e passeggero rimanga invece profondamente scolpito nella intimità plurale, inciso per sempre.

La televisione olandese trent’anni dopo riscopre un’epoca che la cultura europea aveva sbeffeggiato e sottovalutato, qualcuno infatti l’aveva battezzata usando l’epiteto di edonismo reaganiano, e al di fuori dello spettacolo scopra ancora donne e uomini veri, gente che riesce a vivere in modo autentico, alcuni persino contro, godendo in silenzio della loro personale rivolta.

Ricordo negli anni ottanta le discoteche di Iesolo, Sliema, Taormina e gli sguardi sicuri dei Chicos piola che vivevano laggiù, le loro camice di seta, la pelle ambrata e decine di donne intorno. Purtroppo ero fuori tempo perché mi svegliavo all’alba e andavo a caccia di pesci argentati. Hemingway era morto da decenni ma per una strana ragione viveva ancora dentro di me e non potevo farci niente.

Comunque ho visto abbastanza per ritrovare nelle pagine di Marino Magliani la stessa musica e l’energia chiara del tempo, una cosa è certa: eravamo tutti diventati romantici, cani forse lo siamo sempre stati.

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Piero Gaffuri. Korallo

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Si ispira alla tragedia dei Desaparecidos argentini “Korallo” (Editori Internazionali Riuniti, pp.153, 12 euro), il nuovo romanzo di Piero Gaffuri. Al centro della narrazione il dramma personale di GiulioWeber, professore di liceo in un piccolo paese tra le montagne dell’Appennino centrale, che nasconde il doloroso segreto di un amore perduto, Olga, scomparsa per sempre in un’alba di un’estate argentina, come decine di migliaia di suoi giovani connazionali.

Il ricordo e lo schiacciante senso di colpa riaffiorano dopo vent’anni, portandolo a svelare la sua tragedia personale, aiutato dalla moglie, gli amici e dal nuovo parroco del paese. Uno snodo fondamentale del racconto quasi catartico: il dolore si stempererà attraverso il calore della comunità in un passaggio hegeliano dall’ “in sé” al “per sé”, dalla sfera individuale a quella collettiva, riaprendo un percorso che sembrava definitivamente chiuso e facendo inaspettatamente ritrovare quel fiore di corallo che anni addietro aveva suggellato un amore.

Il romanzo “Korallo” conferma l’eclettismo di Gaffuri, autore capace di coniugare letteratura e temi di interesse sociale in un connubio che sfocia in una scrittura armoniosa e allo stesso tempo forte, dove la potenza della vicenda individuale è rafforzata dalle circostanze storiche da cui è scaturita.

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Non a caso il personaggio di Olga, l’amata a cui il giovane Giulio aveva regalato una rosa di corallo, è liberamente ispirato alla storia di Monica Maria Candelaria Mignone (figlia del cattolico progressista argentino Emilio F. Mignone, fondatore del Centro de Estudios Legales y Sociales) desaparecida il 14 maggio 1976 a soli 24 anni, il cui ‘crimine’ è stato quello di insegnare nella baraccopoli argentine, dove vivevano migliaia di famiglie in condizioni precarie.

La stessa catarsi del passaggio dalla tragedia individuale all’atto di coraggio della denuncia attraverso la collettività (il ‘per sé’) si rifà alle Madri di Plaza de Mayo, che sono scese in piazza con i loro fazzoletti bianchi sfidando l’autorità e rendendo nota la vicenda dei figli desaparecidos.

Un romanzo intenso che parla di un’assenza quasi incomunicabile, di segni perduti e dolorosamente ritrovati. Piero Gaffuri ha pubblicato tre romanzi presso la casa editrice Marsilio: Apnea (1999), Il corsaro (2002), Il sorriso del vento (2006). A essi vanno aggiunti la piéce teatrale Il mare racconta (2007) e la raccolta di poesie Una nave impazzita (Il foglio letterario, 2009). Nel 2011 e nel 2013 escono per Lupetti i saggi Web Land. Dalla televisione alla metarealtà e Blog Notes. Guida ibrida al passato presente.

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Franco Arminio. Geografia commossa dell’Italia interna

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Le filosofie dell’ottocento hanno prodotto modelli sociali per lo più utopici che nel secolo successivo hanno portato l’umanità a credere e a impegnarsi in tentativi di realizzazione risultati impossibili e spesso tragicamente fallimentari, oggi invece il pensiero del mondo è semplicemente diviso tra chi crede nella sostenibilità del pianeta e chi invece non ci crede.

Non è una questione ideologica, come si potrebbe supporre utilizzando modelli di riferimento novecenteschi, sono posizioni basate l’una su dati di fatto e l’altra, quella negazionista, sul disconoscimento di fattori ormai incontrovertibili. Scomparsi i modelli sociali alternativi è rimasto in vita soltanto un modello di sistema, tale modello è fondato sullo sviluppo delle società tramite lo sfruttamento delle risorse naturali, comprendendo in questo vasto insieme, uomini, cose, natura.

A pensarci bene è un modello piuttosto primitivo elevato però alla massima potenza e oggi trasferito su scala mondiale. La scelta di campo più facile è sempre quella di preservare la continuità ed è ovvio che gli Stati che hanno maggiormente sostenuto o incarnato lo spirito del capitalismo neghino che esistano limiti al suo processo di sviluppo. Questa la ragione per cui la tesi che il pianeta non sia più sostenibile viene respinta.

I libri di Franco Arminio, esponente di punta di un movimento che definiremmo paesologico, possono aiutarci a riflettere su questioni ormai centrali per la vita di tutti noi e anche a immaginare muovi modelli di sviluppo che, prendendo spunto dalle antiche comunità, non si limitino a disegnare percorsi nostalgici ma a prefigurare innovative modalità di relazione.

Sono i paesi contemporanei l’oggetto della ricerca, catalizzatori di una mozione degli affetti che viene dalla consapevolezza di non potersi limitare solo al dire o allo scrivere ma, soprattutto, a un nuovo fare.

“Al mio paese la vita comunitaria non è fatta più di niente. Se non fosse per qualche rancoroso incallito che ancora milita in piazza, si potrebbe dire che non c’è più niente, solo case e macchine che vengono spostate da un posto all’altro.”

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“(…) una bolla antropologica in cui le persone avevano mandato in giro la loro ombra, come se nessuno potesse più calcare la scena del mondo coi suoi piedi, col suo cuore.”

La constatazione, attraverso l’osservare, che i paesi non siano più i piccoli centri di un tempo, avendo perduto la dimensione della centralità di quando intorno c’era e si sviluppava un lavoro centrato sulla natura, rafforza la convinzione che siano diventati una sorta di indistinta periferia di un centro lontano, periferia spesso degradata e priva di una propria identità anche sotto il profilo culturale.

“La società dello spettacolo di cui parlavano i situazionisti ha ceduto il posto allo spettacolo senza società…la società non c’è più” ed è solo allo spettacolo che si aggrappano ormai i paesi spaesati, alle feste del patrono, alle sagre estive frequentate da personaggi di primo e secondo piano delle televisioni nazionali, confermando ancora una volta di essere semplicemente propaggini, piccole piattaforme utili solo a far rimbalzare una eco.

La speranza è racchiusa nella ineluttabilità dell’azione.

“Possiamo ripartire da piccole comunità provvisorie, possiamo ripartire dai luoghi e da assonanze pazientemente cercate e costruite. Il lavoro della cultura oggi è un esercizio di microchirurgia, si tratta di ricucire nervi tranciati, tessuti lacerati.”

Quindi la ripartenza di una concezione del mondo come organismo vivente può prendere spunto dalla cognizione dei suoi dolori, organizzando modalità di nutrimento contrapposte alle attuali pratiche di prelievo, spesso selvaggio, delle risorse naturali. Il tessuto sociale che supporta queste dinamiche va ricostruito partendo dalla base, attraverso l’elaborazione e la realizzazione di un nuovo concetto di paese e di comune.

E’ dai paesi che bisogna ripartire.

“Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia.”

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Egon Schiele. 24 giorni di prigione

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Il 13 aprile del 1912 il giovane pittore austriaco Egon Schiele viene arrestato dalla polizia e gendarmeria di Neulengbach e successivamente tradotto nel carcere di St. Polten; dopo un periodo di detenzione preventiva di ventiquattro giorni viene condannato a tre giorni di reclusione.

Cosa è accaduto? Come mai uno dei più importanti pittori austriaci, gli altri sono Gustav Klimt, più anziano di una generazione, e Oskar Kokoschka, viene arrestato?

La vicenda prende il via da un malinteso. Una giovane ammiratrice del pittore è sorpresa da una bufera e ospitata nella casa di Egon e visto il brutto tempo non si può fare altrimenti. La ragazza, durante la permanenza, rimane sempre  in compagnia della modella che lavora con Schiele. Il giorno dopo giunge alla casa  il padre, al quale Egon spiega l’accaduto. Intanto, la ragazza, che evidentemente non amava vivere in famiglia, finge di suicidarsi, per fortuna tutto si risolve positivamente e padre e figlia alla fine se ne vanno.

La denuncia dell’uomo ha però messo in moto la gendarmeria e dà luogo a una perquisizione nell’atelier di Egon Schiele. Durante la perquisizione i gendarmi trovano, in una cartella, alcuni disegni erotici. “Questi disegni sono osceni, devo portarli in tribunale. Le faremo sapere in seguito” dice uno di loro andandosene.

Per qualche tempo non se ne sa niente, fino al giorno dell’arresto di Egon.

“…mi hanno messo in galera quei mascalzoni…E’ dunque possibile privare una persona della sua libertà, mettere in prigione un libero artista, uno di cui non si sa neppure se ha commesso il reato del quale lo si incolpa. In base a un sospetto, o peggio ancora: in base a una stupida denuncia, forse malevola o forse sconsiderata.”

Il diario della breve prigionia di Egon Schiele occupa gran parte del testo del Diario di Neulengbach, uno dei periodi più produttivi dell’artista, stroncato da una detenzione ingiusta e paradossale, pubblicato nel 1922, quattro anni dopo la morte del pittore a causa della influenza spagnola, da Arthur Roessler e a detta di alcuni interpreti piuttosto rielaborato dallo stesso Roessler.

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Ma ciò non toglie nulla all’enormità dell’evento e al danno che certamente ha provocato alla capacità creativa di Egon Schiele.

“…l’indagine sui «quadri pornografici» viene portata avanti. Per questo hanno dovuto mettermi in prigione? Il tribunale temeva che sarei fuggito? E’ una cosa troppo stupida!”

Alla fine, come commenta Egon, trascorre in prigione “ventiquattro giorni o cinquecentosettantasei ore”. L’indagine si sgonfia miseramente. “…ma io ho sofferto come un cane, in modo indicibile. Sono stato terribilmente punito senza una condanna.” Egon Schiele viene condannato a tre giorni di reclusione, ne ha scontati ventiquattro, per aver prodotto e diffuso disegni osceni e aver permesso che fossero visti da alcuni minorenni. Durante il dibattimento il giudice brucia in pubblico uno dei disegni.

“Autodafè! Savonarola! Inquisizione! Medioevo! Castrazione, trionfo dell’ipocrisia! – commenta Schiele nel suo diario – Allora andate nei musei e fate a pezzi le massime opere d’arte. Chi rinnega il sesso è un sudicione e infanga in modo più basso i genitori che l’hanno fatto venire al mondo.”

Questa vicenda, peraltro poco nota, mette in evidenza ancora una volta i guasti che una certa e presunta morale e il conseguente perbenismo possono provocare. Veri e propri attentati contro la libera espressione artistica. Tentazioni censorie che purtroppo, anche se ridimensionate, non sono ancora affatto spente.

Egon Schiele è stato uno dei più grandi pittori espressionisti del secolo scorso e come ricorda Rudolf Leopold “non fu soltanto un geniale disegnatore, fu anche un importante maestro del colore.”

A Schiele interessava soprattutto l’arte. “L’arte non può essere moderna, è eterna.”

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Jackson Pollock. La pittura dell’inconscio

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Nell’estate del 1951 Jackson Pollock rilasciò una breve intervista a William Wright per la stazione radio di Sag Harbor e come spesso succede sono proprio le trascrizioni dei contenuti audio a riservare maggiori sorprese, perché la conversazione è la forma migliore per mettere in evidenza gli aspetti più rilevanti di una tematica e anche le emozioni che ne risultano.

Per Pollock l’arte moderna è l’espressione degli ideali dell’epoca in cui l’artista vive, la differenza tra gli artisti moderni e quelli del passato, sta nel fatto che gli artisti moderni sono affascinati dall’interiorità, non cercano di raffigurare e rappresentare un soggetto esterno, ma  “lavorano da dentro”.

E’ un lavoro suggerito e sorretto dalle pulsioni dell’inconscio dell’artista e quando l’opera è terminata e visibile le pulsioni dell’inconscio trasposte su tela incontrano e stimolano l’inconscio dell’osservatore generando un’esperienza interiore condivisa del tutto personale e diversa l’una da l’altra.

“L’inconscio è un elemento importante dell’arte moderna e penso che le pulsioni dell’inconscio abbiano grande significato per chi guarda un quadro”.

Così lo spazio pittorico riesce ad accogliere nel medesimo tempo gli elementi razionali e irrazionali che vengono direttamente dall’umana interiorità, il prodotto è una foresta di segni in cui spesso ci perdiamo, un labirinto senza centro o in cui il centro esiste ma è vuoto.  In questo Pollock si dimostra molto orientale, la “concezione orientale secondo cui la pittura è una realtà vivente e autonoma, partecipe del cosmo, si traduce in Pollock in una violenza espressiva che unisce sulla stessa superficie la traccia dell’azione e una spazialità senza limiti”.

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Le gocce di colore che cadono sulla tela provengono da un pennello usato come un bastoncino e la tela è distesa sul pavimento, la tela è parte integrante della terra e quindi del mondo, simbolicamente non vi sono confini, il colore è liquido e cade in basso, simulando una perdita, quasi una trasfusione sanguigna a favore del quadro che ne ha bisogno.

E’ la libertà di espressione, connessa alla ricerca valoriale dell’impressione, che muove l’artista.

“Utilizzo i pennelli più come bastoni che come veri pennelli. Il pennello non tocca la superficie della tela, resta al di sopra (…) Mi permette di essere più libero, di avere maggiore libertà di movimento intorno alla tela, di essere più a mio agio”.

La pittura dell’inconscio rovescia la dimensione rappresentativa della pittura tradizionale, evoca un mondo antico ove la pittura era parente stretta del mito e del rito, e se davvero il caso non esiste, come del resto ha ribadito Freud, sembra emergere piuttosto una tangibile vicinanza con gli spazi imperscrutabili di un mondo inteso come organismo vivente e quindi così mostrato.

E’ la musica dell’organico che Pollock intende e traduce in segni e simboli, partendo semplicemente da un’idea generale e poi usando la sua tecnica per dare vita a quell’idea, un nuovo mondo nel mondo creando continuità implicita tra un quadro e l’altro ed evidenti o silenti correlazioni e contrapposizioni.

Qualche critico ha sostenuto che Pollock in realtà abbia distrutto la pittura, credo che al contrario l’abbia rianimata, usando il colore per infondere al quadro l’energia necessaria per vivere davvero di vita autonoma.

“Sì sono tutti dipinti direttamente. Sono tutti pezzi unici”.

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Nicholas James Gentry. Recycling and potlatch

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Da qualche parte a casa, in un angolo remoto di un cassetto, conserviamo ancora i vecchi floppy che dieci anni fa, con un scatto dal sapore meccanico, entravano nel drive dei nostri vecchi computer. Oggi sono totalmente obsoleti, definitivamente scomparsi, perché sostituiti prima dalle chiavi usb e poi dai sistemi di cloud computing.

Abbiamo perso persino il ricordo dell’uso di quei dischetti di plastica, compatti e con l’accessorio di metallo in testa, come del resto non rammentiamo l’esistenza di altri precedenti supporti tecnologici, a loro tempo essenziali per lavorare con i nostri computer.

Una riflessione sulla memoria a questo punto diventa necessaria, l’impressione è che la memoria in questi casi lasci poche tracce, probabilmente è direttamente proporzionale alla fatica e alla dimensione hard nello spazio dei ricordi. Ricordiamo le emozioni delle nascite e le morti, il mondo che c’era prima, forse in bianco e nero ma comunque un mondo di sentimenti e speranze, illusioni e disillusioni, amori e disamori, mentre dobbiamo ammettere che ricordiamo molto poco la storia degli accessori soft che hanno animato e animano la nostra vita. Non è rifiuto del consumismo, se lo fosse davvero bisognerebbe dare una certa importanza a tale riduzione percettiva, è semplicemente disinteresse, dimenticanza e non è detto che abbia una valenza positiva.

La memoria strumentale è importante perché affonda le radici nella storia, la storia vera, quella del lavoro e per molti versi della fatica e così le vecchie raspe, le pale, i martelli diventano oggetti di antiquariato, finiscono nei musei d’arte popolare. Una tendenza degli ultimi anni che inconsapevolmente affoga nelle bacheche museali il ricordo della negazione del lavoro coatto, una sorta di schiavitù alla quale l’uomo era costretto per sopravvivere.

Verosimilmente la generale amnesia verso gli oggetti strumentali ha origini motivate e lontane, coniugandosi con un sentimento di avversione nei confronti di una vasta teoria di costrizioni obbligatorie.

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Nicholas James Gentry è un ragazzo dei primi anni ottanta e un artista britannico.

La sua produzione artistica ha un rapporto stretto con l’impiego di manufatti e materiali di vario genere, egli è convinto che attraverso questo processo “l’artista e lo spettatore possano avvicininarsi”. La sua arte è fortemente influenzata dallo sviluppo della tecnologia, dalle problematiche che riguardano il concetto d’identità e l’introduzione della cybercultura nella nostra società, ed è molto attratto dall’impiego dei supporti obsoleti.

E’ conosciuto per i suoi lavori composti di floppy disk e vecchi negativi di opere d’arte cinematografiche, l’obiettivo principale della sua opera è porre l’accento sul tema del riciclaggio dei supporti obsoleti e sul riutilizzo di oggetti personali.

Prima di diplomarsi al Central Saint Martin e di intraprendere una carriera d’artista di successo Gentry lavorava per la strada, era noto ai pochi che lo seguivano perché lasciava le sue opere in regalo ai passanti, un modo per mettere in discussione la nozione di arte come merce e recuperare il suo intrinseco valore espressivo.

Queste esperienze ricordano le riflessioni di Georges Bataille e Marcel Mauss sul potlatch e l’economia del dono, ove alcuni popoli nativi americani usavano disperdere le loro ricchezze, non solo per ostentazione o per avere qualcosa in cambio, ma anche per una sorta di dissennato amore dello spreco. Ai tempi di Bataille e Mauss, primi anni del secolo scorso, il potlatch sembrava sovvertire le fondamenta dell’economia di mercato.

Oggi dobbiamo riconoscere che non è così, il vero potlatch è organico al sistema industriale contemporaneo che inserisce con scansione quotidiana nella categoria del rifiuto prodotti che fino al giorno prima erano di uso comune, basta una nuova release per decretare la morte del nostro pc, del tablet o dello smartphone e spesso è sufficiente solo un sintetico annuncio.

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