Tra le righe di Noa Noa, in trasparenza, emerge l’immagine sfuocata di Vincent Van Gogh, non una semplice allusione ma una presenza impalpabile che si agita come uno spettro inquieto nel desiderio di Paul Gauguin di scoprire e vivere una vita originale, diversa da quella vissuta.
Ad Arles, nell’atelier du sud, Vincent aveva mostrato all’amico la sua terribile verità, non era un pittore normale ma un uomo capace di cogliere l’energia della natura e di riportarla su tela. Il suo sguardo riusciva a catturare i processi viventi proprio come una moderna telecamera e poi a riprodurli sequenza dopo sequenza. Oggi si direbbe in realtà aumentata, perché un girasole impiega alcuni giorni a fiorire e a sbocciare e noi siamo in grado solo di coglierne la forma momentanea non l’energia e il movimento. Vincent invece poteva, quella era la sua forza e al tempo stesso la sua condanna.
Catturare il movimento significa anche constatare il processo di disfacimento delle dinamiche vitali, gettare lo sguardo non tanto sull’attuale stato dell’essere ma piuttosto sul futuro e, al tempo stesso, riuscire a cogliere la differenza e anche il segno marcato della progressiva disgregazione.
Lo sguardo di Van Gogh andava dritto al confine tra la vita e la morte e così, sul proscenio dell’annullamento, l’uomo Vincent faceva a pezzi le cose e i corpi, a cominciare dal suo.
Dopo quella terribile liaison Gauguin aveva il forte bisogno di ricominciare, in qualche modo di ripartire da zero, come pittore ma soprattutto come uomo.
Noa Noa è il diario di una rinascita, della scoperta della purezza della vita fuori dalle convenzioni della civiltà occidentale, un ritorno a un mondo antico ove vivono divinità con nomi di rocce e di animali, dove l’amore e l’amicizia sono doni e non un prestito a titolo oneroso.
“La sera a letto parliamo a lungo e spesso con grande serietà. Cerco nell’anima sua bambina le tracce del passato lontano, socialmente morte, e le mie ricerche trovano risposta. Forse gli uomini, sedotti dalla nostra civiltà e asserviti alla nostra conquista, hanno dimenticato. Gli dei d’un tempo si sono assicurati un posto nella memorie delle donne.”
La vita e i dialoghi con Tehura, la sua giovanissima compagna tahitiana, portano Gauguin alla scoperta di un mondo che sembrava scomparso, lentamente e in modo inconsapevole riaffiora un sentimento di libertà profonda.
“E non ho più coscienza dei giorni e delle ore, del male e del bene. La felicità è totalmente estranea al tempo che ne sopprime la nozione e tutto è bene quando tutto è bello.”
Scrive poco di pittura, ma appare evidente quanto sia importante per la sua vita e quindi anche per la sua pittura questo mondo antico di bellezza e paure irrefrenabili, in cui l’uomo e la donna sono dati alla natura e la natura ne dispone.
“Tehura era a momenti seria e amabile, a momenti folle e frivola, due esseri in uno, molto diversi tra loro che si succedevano all’improvviso con sconcertante rapidità. Non era affatto mutevole, era doppia: il bambino di una razza vecchia.”